Una infermiera ucraina, Irina, e una studentessa russa, Albina, che portano insieme la Croce nella penultima stazione. Fianco a fianco, senza pronunciare una parola, la consegnano a una famiglia di migranti per l’ultima tappa della pia tradizione del Venerdì Santo che ripercorre il cammino di Gesù sul Golgota. È l’immagine-simbolo, come auspicio di pace e di riconciliazione per la guerra in atto in Ucraina, della Via Crucis presieduta da Papa Francesco, tornata al Colosseo dopo due anni di pandemia. “Di fronte alla morte, il silenzio è più eloquente delle parole. Sostiamo pertanto in un silenzio orante, e ciascuno nel proprio cuore preghi per la pace nel mondo”, l’invocazione della tredicesima stazione, la cui meditazione è stata sostituita dalla preghiera silenziosa. “Converti al tuo cuore i nostri cuori ribelli, perché impariamo a seguire progetti di pace”, la preghiera finale letta con voce sussurrata e commossa dal Papa: “Porta gli avversari a stringersi la mano, perché gustino il perdono reciproco; disarma la mano alzata del fratello contro il fratello, perché dove c’è l’odio fiorisca la concordia”.
L’amore basta all’amore. “Ci stiamo rendendo conto che il matrimonio non è solo un’avventura romantica, ma è anche Getsemani, anche l’angoscia prima di spezzare il tuo corpo per l’altro”, la confessione di una coppia di giovani sposi, protagonisti della prima stazione. “A volte, davanti al dolore e alla sofferenza di una madre che muore di parto e per di più sotto le bombe, o di una famiglia distrutta dalla guerra o dalla carestia e dai soprusi, viene la tentazione di rispondere con la spada, di fuggire di abbandonarti, di lasciare tutto pensando che non valga la pena”, la fotografia di una famiglia in missione, che ha guidato la seconda stazione. L’amore basta all’amore, sembra suggerire una coppia di sposi anziani senza figli: “’Come mai non avete figli?’, ci è stato chiesto mille volte, come a insinuare che il nostro matrimonio e il nostro amore non bastassero per essere una famiglia. Quanti sguardi poco comprensivi abbiamo digerito. Ma continuiamo a camminare ogni giorno prendendoci per mano, prendendoci cura insieme di una comunità di fratelli e amici che, tra solitudini e tenerezze, è divenuta nel tempo casa e famiglia”.
Plasmati dagli eventi. “I nostri sogni? Plasmati dagli eventi”, rivela una famiglia numerosa nella quarta stazione: “La nostra realizzazione professionale? Modificata dai fatti della vita che irrompe. I vecchi desideri hanno ceduto il passo alla nostra famiglia. Non è facile, certo, ma è infintamente bello così. E nonostante i pensieri e la densità delle nostre giornate, che sembrano non bastarci mai, non torneremmo mai indietro”. “Nostro figlio era stato già giudicato prima di venire al mondo”, il racconto di una famiglia con un figlio con disabilità, nella quinta stazione: “Ci portiamo addosso la vergogna di una diversità più spesso compatita che abitata. La disabilità non è un vanto né un’etichetta, piuttosto la veste di un’anima che spesso preferisce tacere di fronte ai giudizi ingiusti, non per vergogna ma per misericordia verso chi giudica”.
La gioia del dolore. “La nostra casa è grande, non solo in termini di spazio, ma soprattutto per la ricchezza umana che vi abita”. Così la famiglia che la gestisce definisce la casa-famiglia dove abita. “La nostra vocazione all’accoglienza del dolore – spiega – è stata ed è tutt’ora, a distanza di 42 anni di matrimonio e tre figli naturali, nove nipoti e cinque figli adottivi non autosufficienti e con gravi difficoltà psichiche, tutt’altro che triste. Il dolore ci ha cambiato. Il dolore riporta all’essenziale, ordina le priorità della vita e restituisce la semplicità della dignità umana, in quanto tale”. “Aveva un ruolo, una posizione, una ‘veste’, e si è ritrovata completamente diversa. Nuda, indifesa, crocifissa. E io con lei”. E’ l’esperienza di una famiglia con un genitore malato, al centro della settima stazione”: “Attraverso questa malattia, su questa croce, siamo diventati il pilastro sul quale i figli sanno di potersi appoggiare. Prima non era così”. “Essere ossigeno per le famiglie dei nostri figli è un dono che ci porta alle emozioni provate quando erano piccoli”, la testimonianza di una coppia di nonni nella settima stazione: “Non si finisce mai di essere mamma e papà”. “L’adozione è la storia di una vita segnata dall’abbandono che viene guarita da un’accoglienza”, spiega una famiglia adottiva nella nona stazione: “Ci siamo adottati a vicenda. E non c’è un giorno in cui non ci svegliamo pensando che ne è valsa la pena; che tutta questa fatica non è vana; che questa croce, anche se dolorosa, nasconde un segreto di felicità”.
Una sedia a tre gambe. “Siamo una madre e due figli. Da oltre sette anni siamo una sedia a tre gambe invece che quattro: bellissima e di valore, anche se un pochino instabile”. E’ il racconto, nella decima stazione, di una vedova con i suoi figli: “sotto la croce ogni famiglia, anche la più sbilenca, la più dolente, la più strana, la più monca, trova il suo senso profondo. Anche la nostra”. “Perché proprio nostro figlio? All’inizio non l’abbiamo presa bene”, rivela una famiglia con un figlio consacrato nell’undicesima stazione: “Abbiamo provato a insinuare nella sua testa il dubbio che stesse sbagliando tutto. Come due malfattori. Ma abbiamo capito che non si può lottare contro di te”. “Dio non chiama chi è capace ma rende capace chi chiama”, la lezione imparata da una famiglia che ha perso una figlia, protagonista della dodicesima stazione. La quattordicesima e ultima stazione dà voce alle speranze dei migranti: “Siamo venuti qui per i nostri figli. Moriamo ogni giorno per loro, perché qui possano provare a vivere una vita normale, senza le bombe, senza il sangue, senza le persecuzioni”.