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Le armi della penitenza: l’elemosina o, meglio, la misericordia

L’elemosina, che non è l’erogazione di spiccioli, ma la misericordia per chi non ha e che soffre come soffro io quando non ho, ci può salvare da tutto questo, insegnandoci che sì, è vero che abitualmente siamo intasati di mille cose (come ci ha rivelato il digiuno), e che siamo piccoli piccoli e vittime di un crudele io ideale molto diverso dal Dio vero (come ci ha mostrato la preghiera), ma che possiamo comunque provare ad amare, in modo fragile e maldestro, i nostri fratelli, e che il loro destino è il nostro destino, e che la Pasqua non si festeggia da soli, perché se l’agnello è troppo grande lo devi comunque consumare senza sporzionarlo, e da solo un agnello intero non te lo puoi mangiare

Foto Calvarese/SIR

Avere esplorato i nostri confini con il digiuno dalle nostre abituali ancore di salvataggio nevrotiche, ed esserci resi conto che solo la preghiera può collocarci al di là di noi stessi in un’alternativa possibile, che non si riduca alla vita animale, dovrebbe renderci più comprensivi verso gli altri, abitati dai nostri stessi limiti e fragilità.
Ecco il senso della terza “arma della penitenza”, che peraltro è il fine di tutto il cammino cristiano: l’amore per il prossimo, la lucida consapevolezza dell’altrui bisogno, tanto simile al nostro, eppure tanto facile da dimenticare quando sono tutto preso da me stesso.
Io ho fame, e anche gli altri hanno fame; io ho bisogno di conforto e di supporto, e anche gli altri hanno bisogno di conforto e di supporto; io sono un povero peccatore pieno di limiti e di contraddizioni, che però vorrebbe essere accolto, e anche gli altri sono poveri peccatori pieni di limiti e di contraddizioni, che però vorrebbero essere accolti – da me.

Se la tentazione ci invita a salvarci da soli, ad arraffare quello che possiamo per sopravvivere all’angoscia che essa stessa ci inocula sin da piccoli, il digiuno dovrebbe averci mostrato che siamo troppo schiavi delle nostre abituali soluzioni al vuoto, la preghiera dovrebbe averci ridimensionato, e l’elemosina, cioè l’attenzione all’altro misero come me, dovrebbe aiutarci a capire che da soli non andiamo da nessuna parte, e che la gioia, esattamente con il Padre e il pane, non può mai essere “mia”, ma sempre “nostra”.

Qualche tempo fa, una cerchia di vecchi ricchi e potenti disse che sul pianeta siamo troppi, e che per evitare il surriscaldamento globale si dovrebbe smettere di fare figli. Ecco il mondo dei mondani: un luogo fresco e confortevole abitato da pochi privilegiati ottantenni… e poi il tramonto, e poi ancora più nulla. L’egoismo compiuto nella vuota tenebra di un pianeta cimitero.

L’elemosina, che non è l’erogazione di spiccioli, ma la misericordia per chi non ha e che soffre come soffro io quando non ho, ci può salvare da tutto questo,

insegnandoci che sì, è vero che abitualmente siamo intasati di mille cose (come ci ha rivelato il digiuno), e che siamo piccoli piccoli e vittime di un crudele io ideale molto diverso dal Dio vero (come ci ha mostrato la preghiera), ma che possiamo comunque provare ad amare, in modo fragile e maldestro, i nostri fratelli, e che il loro destino è il nostro destino, e che la Pasqua non si festeggia da soli, perché se l’agnello è troppo grande lo devi comunque consumare senza sporzionarlo, e da solo un agnello intero non te lo puoi mangiare (cfr. Es 12, 4ss.).

La folle cecità che sta spingendo sempre più verso la guerra i potenti di questo mondo dimostra che solo provare a calarsi nell’altrui fragilità, più simile alla nostra di quanto vorremmo, e provare a pensare insieme all’altro, al plurale, potrà salvarci da noi stessi.

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