“O Dio, nostro Padre, concedi, al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione, per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male”.
Così abbiamo pregato all’inizio della messa del Mercoledì delle Ceneri, ovvero all’inizio dell’inizio della Quaresima, che ogni anno arriva per ricordare ai Cristiani che la condizione della Chiesa sulla terra è quella del combattimento – da qui l’immagine molto felice coniata da Papa Francesco della Chiesa quale “ospedale da campo”, ovvero di luogo di ristoro e cura delle ferite che le persone possono subire e di fatto subiscono nel loro cammino osteggiato dalla tentazione e dunque bisognoso di lotta. Perché di questo si tratta, con buona pace di barbuti ecclesiastici d’Oriente: non una guerra santa esterna, esteriore, contro altri esseri umani, ma una lotta spirituale, ovvero interiore, contro quelle istanze non sempre solo riducibili alla psiche, che la nostra vita vogliono frenarla, impedirle di sbocciare, farla regredire, fino a che si perda. Ritenere che, per un Cristiano, combattere significhi imbracciare le armi contro altri esseri umani, significa averla data già vinta a queste forze tenebrose, questo spirito del male, come è chiamato nella colletta delle Ceneri, che nella guerra e nella violenza, nella paura e nella prevaricazione vede l’avanzamento del suo regno, e l’impedimento all’avvento del Regno di Dio.
Eh no, sarebbe troppo semplice: la guerra che dobbiamo fare, la dobbiamo fare dentro di noi, e la prima cosa da fare, per poter colpire efficacemente, è stanare l’avversario – ecco il senso del digiuno quale prima delle tre armi della penitenza.
Tutte le correnti religiose e filosofiche dell’antichità hanno da sempre conosciuto e apprezzato il digiuno; lì però era una questione di volontà, di stringere i denti per affermare la superiorità dell’animo umano sugli impulsi della natura.
Il digiuno cristiano ha un altro senso, che è quello mostrato dai quaranta giorni di Gesù nel deserto, dopo i quali è scritto che “ebbe fame”. Il digiuno serve a ricondurci alla nostra povera creaturalità fatta di vuoti e di bisogni, che il non mangiare stana tanto quanto la stana l’apparire di Dio per come è, quando, riempiendolo di sonno, riporta all’ordine l’uomo che troppo spesso si crede un dio, sonno simbolo della sua impotente mortalità, come è avvenuto nelle letture ascoltate ieri ad Abramo e ai tre discepoli del Tabor.
Veglie e digiuni ci ricordano cosa siamo: “Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai!”
La coscienza di questa nostra bisognosa povertà ci mette di fronte al nemico numero uno: la paura della morte, dalla quale di solito cerchiamo di scappare anestetizzandola con i piaceri, le sicurezze, le conferme… cose tutte che di fatto rinforzano il potere della paura in noi.
Il digiuno è il modo con cui vogliamo provare a sospendere per un po’ l’anestesia, andando a toccare il disagio sapienziale che può insegnarci che la vita non ce la diamo da soli, e che tutto, anche un tozzo di pane quando hai fame, è un dono pieno di gioia per cui ringraziare. Tutto è dono, quando smetto di arraffare. Nulla è scontato, quando non ho più nulla.
Due anni fa iniziammo la Quaresima in quarantena, e fummo messi a digiuno di relazioni, contatto fisico, libertà di movimento: abbiamo capito, in questi due anni, quanto queste cose siano doni non scontati, e che possiamo fare a meno di molte delle altre cose con cui di solito proviamo ad anestetizzare la paura?
Ci serve forse qualche altro flagello per fare davvero Quaresima, quest’anno?
Speriamo di no.