Ogni anno ci è dato dalla liturgia il colore e il tempo della penitenza, in cui possiamo “registrare i bulloni” di una vita interiore che scricchiola sempre, nell’indicibile chiasmo tra carne e Spirito.
Ogni anno, puntuale come la Quaresima, arriva la grande sfida del nostro Io ideale che, soprattutto per quelli di noi che sono maggiormente “di buona volontà”, si presenta con tutte le trappole di volontarismi e propositi per lo più sterili.
Senz’altro, anche per la stagione primaverile concomitante che chiama a un rinnovamento, applicarsi in Quaresima a una qualche forma di sobrietà per lo più alimentare fa bene a noi ipertrofici figli dell’Occidente in declino (già sarebbe da fare un altro discorso per Paesi cristiani in condizioni assai differenti…); è triste però vedere come troppo spesso sia nella catechesi dei più piccoli, che nella trattazione per i più grandi, si pensi ai “fioretti” quaresimali come a un qualche tipo di piccola rinuncia, di mortificazioncina, più che a un richiamo forte alla conversione della vita.
Ma in effetti, che tipo di richiami si dovrebbero mai fare? In ogni Quaresima si formulano propositi che per lo più si sa che non si manterranno, o che anche se si riuscissero a mantenere ci servirebbero a gonfiarci nell’orgoglio più che a pentirci di esso. Ogni anno noi predicatori esortiamo alla revisione di vita, al pentimento, alla mortificazione… e ogni anno dobbiamo constatare che noi per primi, e con noi il nostro gregge, arriviamo al Giovedì Santo sera esattamente come stavamo il Mercoledì delle Ceneri mattina.
I “fioretti” di Quaresima assomigliano troppo all’invito a essere più buoni a Natale: prese di posizione di circostanza, che molto spesso non raggiungono il nucleo.
Guardiamola da vicino, la Quaresima di Gesù: Egli non è andato nel deserto per digiunare, ma ha digiunato per stare nel deserto, quello vero, della nostra nuda natura in tutta la sua fragilità, che attraverso le rinunce si rivela per quello che è, e cioè un terreno di lotta tra l’anelito celeste e le pressioni di pulsioni informi e diaboliche. Gesù non ha fatto “fioretti” in Quaresima, ma ha percorso in lungo e in largo i limiti di questa nostra carne, stanando e vincendo l’Avversario in ogni suo recondito nascondiglio: nella pulsione orale dei nostri bisogni primari, nella nostra smania di essere visti e riconosciuti, nella nostra insicurezza che ci porta ad anelare il controllo e il potere.
La Quaresima noi Cristiani ce la siamo inventata quando ci siamo impigriti, pensando di poter fare penitenza quaranta giorni all’anno per poterla non fare gli altri trecentoventicinque: nei primi secoli della Chiesa non esisteva (c’era solo il digiuno da giovedì a sabato sera della Settimana Santa), perché i fedeli erano costantemente consapevoli della dimensione quaresimale di ogni giornata, cioè dell’importanza spirituale di confrontarsi ogni giorno con le incertezze della nostra carne e la risposta autentica dello Spirito.
Forse il proposito migliore quest’anno sarebbe quello di non fare propositi, se non quello di abitare seriamente la propria ferialità, i propri doveri, il proprio lavoro e le proprie relazioni, e provare a vedere che succede se per un po’ proviamo a farci carico della concretezza delle nostre giornate senza cercare le solite fughe, le compensazioni, le lamentele, i sogni a occhi aperti…
Alzarsi ogni mattina e decidersi, giorno dopo giorno, a rispondere “sì!” a quello che la vita ci imbandirà ogni giorno, per quel giorno.
Chissà che questo “proposito”, equivalente a vivere la vita stessa in tutta la sua austera semplicità, non ci avvicini un po’ di più alla conversione, rispetto a non mangiare questo o quello.