Comunicazione. Ruffini: “Il Papa ci ricorda che il centro non siamo noi”

Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, commenta per il Sir il messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali: "Ascoltare significa uscire da se stessi. Il cuore aperto è il migliore antidoto al pensiero unico"

Foto (Siciliani-Gennari/SIR)

“Il centro non siamo noi, ma quello che raccontiamo dopo aver visto e ascoltato”. Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, commenta così al Sir il messaggio del Papa per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, diffuso oggi e dedicato all’ascolto. “Il cuore aperto è il miglior antidoto al pensiero unico”, assicura il prefetto: è anche la lezione della pandemia e del primo anno del Sinodo voluto da Francesco.

Dopo l’andare e vedere, il Papa nel Messaggio di quest’anno per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ci chiede di ascoltare. Cosa significa questo imperativo per i comunicatori, in un mondo dove il silenzio – premessa necessaria – sembra un miraggio?

Significa, secondo me, ripartire dall’inizio, dalle fondamenta dimenticate di ogni comunicazione. Significa, in un tempo in cui tutti parlano e pochi ascoltano, ricordarci che senza ascolto la comunicazione invece di connetterci ci isola dalla realtà. Significa anche dirci fate attenzione a come ascoltate, a chi ascoltate. E se siamo giornalisti, se lavoriamo nella comunicazione, significa

ricordarci che il centro non siamo noi, ma quello che raccontiamo dopo aver visto e ascoltato.

Il Papa ci ricorda che la comunicazione “è uno strumento per incontrarsi, non per scontrarsi; per dialogare, non per monologare”. Per questo è importante ascoltarsi.

Se guardiamo alla comunicazione in tv o sul web o sui giornali;  se proviamo a usare il metro dell’ascolto per i talk show, o le conversazioni sui social, e forse anche la comunicazione interpersonale, scopriremo che non c’è molto da misurare. Che lo spazio del silenzio è scomparso dalle nostre vite. Che preferiamo stordirci con il rumore. Ma non è così che arriveremo alla verità.

L’ascolto è il primo passo per una condivisione autentica dei bisogni dell’altro. E’ una delle lezioni della pandemia.

La pandemia ci ha fatto capire quanto siamo connessi gli uni agli altri. Quanto bisogno abbiamo di essere ascoltati. E quanto sia vero che solo insieme, solo parlandoci e ascoltandoci, ritroviamo il senso di quello che cerchiamo, il senso di quello che siamo. E anche Dio.

Ascoltare significa uscire da se stessi.

In uno scritto destinato ai membri dell’Associazione Corallo, Francesco ha citato il libro dei re per dire che anche Dio va ascoltato al di fuori del frastuono: “Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero….” E il Signore era lì. Anche nel giornalismo serve questo tipo di ascolto. Che si fonda sul tendere l’orecchio, e non solo. Che richiede l’aprire il cuore. L’ascolto si fonda su una grande sensibilità.

Il primo anno del cammino sinodale proposto da Francesco alla Chiesa per questi tre anni è dedicato proprio all’ascolto. Dall’osservatorio del vostro Dicastero, a che punto siamo nella “mobilitazione” ecclesiale?

Il Sinodo ha avviato un cammino di ascolto reciproco che coinvolge tutto il popolo di Dio. Ascoltarsi. Parlarsi. Imparare gli uni dagli altri. Ascoltare Dio. Ascoltare lo Spirito. Come è scritto nell’Apocalisse «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (2,7). Non si tratta di mobilitazione, come se fosse una prova di forza. Quello che si è avviato, quello che ci è chiesto,  è qualcosa di molto più profondo, durevole. E’ un cammino di conversione. Certo, il Sinodo può avere un ritmo diverso, e lo ha,  a seconda delle nazioni; ma allo stesso tempo è proprio così che si sperimenta l’unità. L’essere membra gli uni degli altri.  Diversi, ma uniti.

Il processo è avviato. E qualcosa di nuovo sta già germogliando, con creatività,  in misura maggiore forse nel Sud del mondo:

nell’ascolto dei poveri; nei riconinvolgimento di chi si era allontanato dalla Chiesa ; nel dialogo ecumenico, nel dialogo anche con le altre religioni e con chi non crede. E anche in un modo diverso di intendere la comunicazione: come relazione.

Ci vuole coraggio per ascoltare, cioè un cuore aperto anche a chi è molto diverso da noi. Come raccogliere questa indicazione del Messaggio, in uno scenario mondiale in cui – la denuncia del Papa nel recente discorso al Corpo diplomatico – domina la “cancel culture” e il “pensiero unico”?

Non so se è più una questione di coraggio o di consapevolezza: solo un cuore aperto ci permette di capire. E

il cuore aperto è il migliore antidoto al pensiero unico.

Perché smonta i paradigmi anti-umani del nostro tempo. Il cuore aperto è il contrario della cardiosclerosi, di cui tante volte ha parlato il Papa.

Uno dei pericoli sempre in agguato, come ama ripetere il Papa, è quello che gli strumenti digitali si sostituiscono ai rapporti umani. L’ascolto può essere una modalità per evitare questa dicotomia nella comunicazione, anche nell’ottica della riforma che Papa Francesco sta portando avanti.

Il punto non è tanto distinguere tra realtà virtuale e realtà reale. Il digitale è una realtà del nostro tempo. La realtà è il mondo in cui viviamo. Il punto è un altro: è non dividere il nostro corpo dalla nostra anima; non immaginare che si possa costruire un mondo di relazioni solo incorporee; dove la parola è disincarnata, dove la relazione è narcisistica; dove mancano le radici, la terra sotto i piedi. Quello che il Papa ci invita a fare è ricostruire l’unità di quello che siamo nel tempo in cui viviamo.

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