Pandemia, fragilità e Chiesa. Questo il nodo affrontato lo scorso 19 novembre da cinque istituzioni accademiche teologiche italiane, avviando un percorso di ricerca che si concluderà ad aprile 2022. Una ventina di docenti di due Facoltà teologiche (Triveneto ed Emilia Romagna) e di tre Istituti superiori di Scienze religiose (Padova, Toscana ed Emilia) si sono messi a confronto con le sfide poste da questo tempo a Chiesa e società.
“In un tempo di grandi richiami alla concretezza corporea e alle relazioni – osserva Angelo Biscardi, docente dell’Istituto superiore di Scienze religiose della Toscana – è proprio la possibilità di incontro corporeo che ha subito uno scacco radicale”. Come può allora manifestarsi la testimonianza dei credenti per una “chiesa in uscita”?. Per il teologo “i più prossimi ai malati sono gli operatori sanitari, coloro che richiederebbero forse le attenzioni pastorali più importanti in ordine a una ministerialità laicale da formare, per una Chiesa che non si sostituisce con proprie iniziative istituzionali a quanto già può accadere attraverso l’esercizio ordinario delle attività professionali”. E di fronte alla sfida delle nuove tecnologie Biscardi parla di
una nuova declinazione dell’humanum da accogliere e da evangelizzare,
come è accaduto “per ogni passaggio dell’evoluzione tecnica umana: in questo humanum c’è anche l’esperienza del virtuale che si offre come una sfida antropologica alla teologia dell’incarnazione”.
Per Maurizio Marcheselli, docente della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, “la salvezza di Dio ha agito nell’uomo Gesù crocifisso: infatti lo ha resuscitato. La potenza di Dio – che si vede nel crocifisso – è la potenza che alza l’umiliato, che fa vivere il morto, che dà forza allo schiacciato. Il fatto che il crocifisso sia la forma storica della salvezza significa che,
per salvarsi, l’uomo deve riconoscere la propria radicale impotenza e insipienza per accettare una salvezza che può solo soccorrerlo dall’esterno”.
In questo orizzonte “la theologia crucis paolina non ha nulla a che vedere con l’esaltazione della sofferenza, essa è piuttosto la celebrazione del limite come condizione strutturale dell’essere umano, a partire dalla quale unicamente gli è possibile sperimentare la salvezza, che non può essere altro che qualcosa di ricevuto dall’esterno”.
“Il primo segno di civiltà è un femore rotto e guarito, indice di una cura”. Questa espressione dell’antropologa americana Margaret Mead è citata da Dario Vivian, docente della Facoltà teologica del Triveneto, per introdurre il tema della cura degli ammalati nel contesto culturale contemporaneo che “ha accentuato un processo di reificazione del corpo del malato: la salute diviene merce e il paziente un cliente; l’oggettività del dato biologico è separata dalle relazioni umane; i corpi malati sono confinati in spazi e tempi altri e separati dai sani. A volte sono le cure a richiederlo, a volte è la società a confinare una realtà che non vorrebbe fosse la propria”. Di qui l’icona biblica del buon samaritano: il soccorso come azione che cura ma anche “con-sola e con-forta”. Per Vivian
“il corpo malato è anche il corpo sociale ed ecclesiale: c’è bisogno di guarigione che sia anche conversione”.
A noi cristiani “il compito di traghettare verso l’intuizione che c’è Cristo a condividere la sofferenza, verso l’apertura al trascendente. Quanto abbiamo visto nelle corsie degli ospedali nei momenti più bui della pandemia deve spingerci a recuperare una sacramentalità allargata, che non si fermi unicamente nel momento celebrativo, e a riplasmare la solidarietà nella forma della carità ‘dossologica’ (assolutamente gratuita) e politica”.La quasi totale marginalità della dimensione spirituale rispetto alla guarigione e alla “salus” dei corpi è una delle evidenze cui ci ha messi di fronte questo tempo di Covid. “Paradossale – secondo Fabio Frigo, docente dell’Istituto superiore di Scienze religiose di Padova – che la figura del medico, nel caso concreto il virologo, sia diventato il detentore di una parola che può salvare, illuminare e guidare le coscienze”. L’esperienza vissuta, afferma, dovrebbe “stimolarci a ripensare la presenza dei malati nella Chiesa”: non più “oggetto” di cura ma “soggetti” dell’annuncio della fede e quindi dell’azione ecclesiale. Di fronte all’aumento delle cosiddette “malattie dello spirito” un interrogativo non più ineludibile:
“L’unzione degli infermi può rappresentare una valida offerta di un gesto sacramentale che dica vicinanza, cura, guarigione e attenzione da parte della Chiesa nel caso di una malattia grave della psiche?”.
“Ciò colmerebbe – conclude Frigo – un vuoto di prassi per una situazione esistenziale (appunto, le malattie psichiche) per cui, come chiesa, non disponiamo di un’azione specifica, lasciando libero il campo a figure poco professionali (maghi, santoni, cartomanti, indovini…) a cui a volte si appellano anche i malati cristiani”.