“Aspettavamo tutti la notizia, che circolava nell’aria da giorni. Quando ci è arrivata la comunicazione, la commozione è stata grande tra noi che eravamo suoi amici. Il riconoscimento delle virtù eroiche significa che siamo ormai a una passo dalla beatificazione. La gioia più bella è per quello che abbiamo davanti!”. Don Gianni Fiorentino, parroco del Cuore Immacolato di Maria di Molfetta, è stato per tanti anni segretario di don Tonino Bello: “È stato un pezzo di Vangelo vissuto. Ogni sua parola e ogni suo gesto ci facevano sentire Gesù vivo e vicino. Era un sacerdote e un uomo contemplattivo, come lui stesso amava dire nel suo lessico ricco. Pastore appassionato, profeta di speranza, amico dei poveri. Don Tonino è il frutto dello Spirito Santo”.
Don Tonino è conosciuto per la passione per la giustizia e per la vicinanza ai poveri. Che spazio trovava la preghiera nella sua vita di vescovo?
La preghiera non era una realtà di contorno o marginale. Non era il merletto che si aggiunge al panno della propria giornata, che rischia facilmente di lacerarsi. La preghiera era parte integrante della sua vita. Era la sorgente della sua carica profetica, della passione per la giustizia, dell’impegno per la pace.
Anche i suoi scritti, così attuali, nascevano nei momenti di raccoglimento?
Li scriveva davanti all’Eucarestia, nella cappellina dove aveva posizionato una piccola scrivania. Amava alzarsi presto, prima che iniziasse la fila dei poveri che bussavano alla sua porta. E lui non voleva sottrarre tempo alle persone in difficoltà. Alle 4 del mattino era già sveglio e, davanti al Tabernacolo, pregava e scriveva. La mia camera era accanto alla sua: mi è capitato spesso di vederlo di notte, incuriosito dalla luce che filtrava dalla porta, mentre era raccolto nel dialogo con il Signore. Prendiamo sempre più consapevolezza di quanto sia stato profetico. I suoi scritti sembra siano stati pubblicati oggi.
Siamo stati fortunati, perché abbiamo avuto la possibilità di guardare la storia con i suoi occhi. Ci mancano tanto le sue denunce e le sue letture profetiche della realtà.
Che uomo era nel privato?
Un uomo vero, dalle relazioni immediate. I suoi incontri erano veri con tutti, non c’erano filtri. Si faceva chiamare “don” Tonino non come vezzeggiativo, ma perché fin dal primo momento aveva compreso che il titolo di monsignore lo avrebbe in qualche modo allontanato dal popolo. Avrebbe creato una distanza che lui non voleva. In questo senso, viveva ogni giorno la cultura dell’incontro di cui parla il Papa. Una persona può averlo incontrato anche una sola volta nella vita, ma in quell’incontro ha trovato Tonino Bello: un uomo semplice, puro, pulito e autentico.
Come si svolgeva la giornata di don Tonino?
Tutto iniziava con l’incontro dei poveri. Mi rendo conto che possa sembrare una narrazione eccessiva, quasi a volerne fare un mito. Ma lui era così. Alle 7 incontrava uno dopo l’altro i poveri che arrivavano da Molfetta e dagli altri paesi della diocesi. Ricordo che i primi giorni, preso dall’entusiasmo e prete giovanissimo, ho retto il suo ritmo.
Poi mi sono domandato con quale forza riuscisse ad ascoltare almeno 50 persone al giorno. Si dedicava completamente agli ultimi.
La sera, quando non doveva andare a celebrare in qualche parrocchia, girava per la città e andava a visitare le persone nelle case. Frequentava i luoghi in cui la gente viveva perché, sosteneva, i luoghi della povera gente erano il centro del suo ministero pastorale. Lì capiva chi fosse il popolo che gli era affidato e di cosa avesse bisogno.
Eppure questa sua vicinanza ai poveri gli è costata anche qualche critica.
Non ha sempre goduto di grande stima, soprattutto quando era ancora in vita. Ma a lui non interessava, piuttosto ripeteva che Dio si è fatto ultimo per venire al mondo, che il suo volto è riflesso in quello dell’uomo che è umiliato, che Cristo è stato mandato ai poveri. È la Chiesa del grembiule. Non bisogna soltanto organizzare la speranza, come ha ricordato il Papa, ma anche la carità. Non solo creare strutture di accoglienza, ma luoghi di educazione alla carità. Diversamente rischiamo di ridurci a fare assistenzialismo, spiegava. Non bastano le opere della carità, se manca la carità delle opere.
Negli ultimi anni, segnati dalla malattia, che don Tonino ha conosciuto?
Un uomo che non si risparmiava, nonostante il tumore fosse diventato aggressivo. Fino a quando le forze glielo hanno permesso, celebrava in parrocchia e adempiva a tutti i doveri del suo ministero. Penso al viaggio a Sarajevo, che ricordo come fosse ieri.
Si reggeva a mala pena in piedi, il medico gli aveva sconsigliato di muoversi così come la famiglia e tutti coloro che gli volevano bene. Ma don Tonino aveva capito che non c’era più tempo, e lui aveva ancora una missione da portare avanti.
Uno dei suoi fratelli lo accompagnò in Bosnia. Quando tornarono, don Tonino mi confidò che per tutto il tempo aveva avuto paura per la vita del fratello a causa delle bombe che cadevano sulla città.
Che ricordo conserva di lui?
Quello di un padre, che sorride per incoraggiare e riprende per far crescere. Ricordo questo afflato paterno di vicinanza. L’ultimo periodo lo accompagnavo dappertutto e cenavamo sempre insieme. Porto nel cuore le ultime parole che mi ha rivolto, il saluto prima di morire. È stata una presenza dolce e forte, amabile e severa. Don Tonino è stato un modello di umanità e di sacerdote.