All’inizio l’idea che io, semplice prete diocesano di una Chiesa locale che pullula di Gesuiti (Roma!), dovessi scrivere un articolo sul cinquecentenario della conversione di sant’Ignazio, avviato il 20 maggio, ha suscitato in me un complesso di inadeguatezza.
Poi però ho pensato che, essendo io parroco di San Francesco Saverio alla Garbatella, la sua conversione mi riguarda da vicino, perché Francesco Saverio è arrivato alla fede, e all’eroismo della missione, proprio perché anni prima un certo cavaliere basco, rinsavito per una cannonata tra le gambe, si era convertito arrivando poi a convertire lui.
E quindi parliamone, della conversione di Ignazio, però a partire dal suo racconto in cui ci descrive la sua smania di riconoscimenti, la tenacia ostinata, l’eros appassionato… tutti ingredienti fondamentali per formare un Santo, quando si fosse trovato il contesto giusto in cui farli cuocere dalla fiamma dello Spirito.
Tale contesto fu la camera offertagli dalla sorella un po’ bigotta, nella torre-fortezza del loro paese di residenza; lì Iñigo, convalescente per la cannonata e i vari interventi alla gamba (di cui almeno uno avrebbe potuto risparmiarselo) si annoia, e cerca qualcosa da leggere:
“Nostro Signore gli ridava salute; andò migliorando a tal punto che si trovò completamente ristabilito. Solo che non poteva reggersi bene sulla gamba e doveva per forza stare a letto. Poiché era un appassionato lettore di quei libri mondani e frivoli, comunemente chiamati romanzi di cavalleria, sentendosi ormai in forze ne chiese qualcuno per passare il tempo. Ma di quelli che era solito leggere, in quella casa non se ne trovarono. Così gli diedero una Vita Christi e un libro di vite di santi in volgare. Percorrendo più volte quelle pagine restava preso da ciò che vi si narrava. Ma quando smetteva di leggere talora si soffermava a pensare alle cose che aveva letto, altre volte ritornava ai pensieri del mondo che prima gli erano abituali. […] A questi pensieri ne succedevano altri, suggeriti dalle cose che leggeva. Così leggendo la vita di nostro Signore e dei santi si soffermava a pensare e a riflettere tra sé: ‘E se anch’io facessi quel che ha fatto san Francesco o san Domenico?’. In questo modo passava in rassegna molte iniziative che trovava buone, e sempre proponeva a se stesso imprese difficili e grandi; e mentre se le proponeva gli sembrava di trovare dentro di sé le energie per poterle attuare con facilità. Tutto il suo ragionare era un ripetere a se stesso: san Domenico ha fatto questo, devo farlo anch’io; san Francesco ha fatto questo, devo farlo anch’io. Anche queste riflessioni lo tenevano occupato molto tempo. Ma quando lo distraevano altre cose, riaffioravano i pensieri di mondo già ricordati, e pure in essi indugiava molto. L’alternarsi di pensieri così diversi durò a lungo. Si trattasse di quelle gesta mondane che sognava di compiere, o di queste altre a servizio di Dio che gli si presentavano all’immaginazione, si tratteneva sempre sul pensiero ricorrente fino a tanto che, per stanchezza, lo abbandonava e s’applicava ad altro.
C’era però una differenza: pensando alle cose del mondo provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché una volta gli si aprirono un poco gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi: dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro; e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno del demonio, l’altro di Dio.
Con tutta la luce ricavata da questa esperienza si mise a riflettere più seriamente sulla vita passata e sentì un grande bisogno di farne penitenza”. (Autobiografia, nn. 5-9).
Sia chiaro, Iñigo qui era ben lungi dall’essersi davvero convertito: stava solo ritinteggiando la sua mentalità di sempre, fatta di gesta esteriori e di onori, applicandola ad altri personaggi… eppure qualcosa si era ormai messo in moto, un desiderio di cambiamento, di “fare penitenza”, come scrive lui stesso, cioè di rimettersi profondamente in discussione. Da quel letto di convalescenza, da quella stanza, sebbene in modo acerbo e ingenuo, era ormai iniziato qualcosa di nuovo.
Tuttavia quando leggo questo brano, mi chiedo sempre una cosa: che sarebbe successo se Iñigo avesse trovato in casa della sorella i romanzi di cavalleria che cercava? Il pensiero mi assale come una vertigine perché se egli avesse trovato il libro che cercava, io oggi non sarei qui, per quanto il mio cammino vocazionale deve al metodo ignaziano.
La conversione di Ignazio, in un certo senso, è dipesa dal libro che per fortuna non c’era.
A questo punto chiediti: sei sicuro che sia un bene ottenere sempre quello che vuoi, e frustrarsi per quando non arriva?
È nel vuoto, nella mancanza, che si può instaurare la novità, e la vera creazione è sempre una creazione dal nulla, come la resurrezione è vera se è dalla morte.
La nostra vocazione probabilmente dipende sempre da quanto cerchiamo e che per fortuna non troviamo, lasciando Dio libero di trovare noi.