Il primo indizio era in quell’affermazione semplice e forte pronunciata da Francesco all’inizio del suo pontificato: “La Verità è una relazione”. Il Papa chiariva come l’annuncio evangelico si giocasse tutto su un piano esistenziale più che operativo.
In fondo la domanda rivolta da Gesù stesso ai suoi discepoli “E voi, chi dite che io sia?” (Cfr. Mt 16,15) non lasciava dubbi circa la necessità per ciascuno di risignificare ciò che la Chiesa crede con una propria, personale risposta di vita.
Ecco che il catechista non poteva essere ricondotto al mero progettista/realizzatore di incontri “parlati”, ma nemmeno di attività più coinvolgenti, funzionali a trasmettere le verità di fede.
Benedetto XVI lo aveva affermato con la chiarezza che gli è propria: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus Caritas Est, n.1).
La catechesi riguarda la vita di chiunque sia dentro quell’esperienza, tanto i ragazzi, destinatari dell’annuncio, quanto i catechisti, che quell’annuncio lo rivolgono loro: perché entrambi entrano allo stesso modo nel dinamismo della Parola che trasforma la vita di chi la frequenta. E i bambini sono capaci di Dio non meno dei grandi, perché tutti siamo in cammino verso la conoscenza di Lui, che non si rivela ai sapienti ma ai puri di cuore.
Ora, coloro che in maniera più diretta sono stati coinvolti nell’evangelizzazione sanno perfettamente che mai la capacità oratoria o pratica è stata decisiva nell’efficacia di quell’annuncio; ma che sempre dalla loro credibilità di testimoni, dalla qualità delle relazioni che hanno intessuto con i ragazzi loro affidati è passata la possibilità dell’incontro con Cristo. E non basta parlare di relazioni, perché non tutte le relazioni sono buone: ci vogliono buone relazioni educative.
Ciò che investe la vita, nella Chiesa diventa ministero: così come l’accolito non smette di servire sull’altare, ma prosegue nei poveri l’esercizio della carità, il catechista esprime con la vita quella testimonianza cristiana che manifesta nella catechesi semplicemente in maniera più sistematica.
Per i catechisti del Centro oratori romani (Cor) è un dono grande vedere la Chiesa riconoscere come ministero l’essere catechista, perché da sempre professano come la scelta di servire i bambini nell’Oratorio non sia circoscrivibile alle ore spese in parrocchia.
C’è anche un pericolo dietro ogni ministero: quello, per chi lo riceve, di sentirsi migliore proprio per il fatto di essere stato chiamato. È una logica meritocratica che non appartiene alla dinamica del dono propria della Grazia e che tradirebbe l’essenza per cui ogni ministero viene istituito: servire nella Chiesa. Stiamo dunque attenti a non leggere questo Motu Proprio con orgoglio, come un riconoscimento che ci pone più in alto. Piuttosto,
accresciamo la consapevolezza della responsabilità che la Chiesa ci consegna,
ma soprattutto della bellezza inestimabile a cui ci chiama il Signore nell’annunciare a tutti la sua Parola d’Amore.
(*) presidente del Centro oratori romani