L’invito di papa Francesco per una “maratona” di preghiera incessante, in questo mese di maggio, per invocare la fine della pandemia ci spinge a riflettere sull’importanza della preghiera di supplica e intercessione.
Inizio con una provocazione: in questa società così secolarizzata i cristiani credono ancora nella potenza della preghiera di intercessione o non pensano, forse anche inconsciamente, che ormai possiamo cavarcela da soli e che, comunque, tanto non veniamo veramente esauditi? Dunque ci sentiamo onnipotenti e abbiamo molta poca fede!
Per chi ha occhi per vedere e orecchi per ascoltare, la pandemia offre senz’altro anche una parola di Dio per l’umanità. Dovrebbe averci almeno insegnato che, anche con tutta la nostra scienza e tecnologia, non siamo onnipotenti e non possiamo controllare tutto, non è tutto nelle nostre mani. È come se Dio stesso ci supplicasse: “Fermatevi! Sappiate che io sono Dio” (Sal 46, 11)). Allo stesso tempo va ribadito che la preghiera non è da ritenere come l’ultima spiaggia quando tutti gli altri rimedi non funzionano. Questa è una visione superstiziosa e non da credenti.
Il grido è la forma più universale della preghiera. Non c’è bisogno di saper pregare per questo. Anche gli atei e gli indifferenti soffrono e gridano dunque, in qualche modo, pregano: “Dal profondo a te grido, o Signore” (Sal 130, 1). È il grido della creatura davanti al Creatore anche se la creatura non gli dichiara il suo amore. Il grido dell’anima è l’espressione del nostro bisogno di non sentirci soli, orfani in un mondo di smarriti. Nella tradizione rabbinica, una delle definizioni di Dio è: “Colui che ascolta il grido”. Lo stesso Gesù, nella sua esperienza umana e figliale, ci insegna questo atteggiamento orante: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per suo abbandono a lui, venne esaudito” (Eb 5, 7).
Supplicare è attendere come un mendicante che qualcuno ci faccia un dono, senza alcun merito da parte nostra. S. Agostino dice: “L’uomo è un mendicante, quando prega bussa alla porta del Padre di famiglia chiedendo qualcosa che è Dio stesso” La supplica afferma la verità antropologica di ciò che siamo: fragili creature poste nel limite, figli davanti al Padre. Non è affatto scontato accettarlo, ma è un cammino che ci attende.
Quando nella vita incontriamo difficoltà e contraddizioni, invece di metterci in ginocchio a pregare e supplicare, noi discutiamo, riflettiamo all’infinito sui nostri problemi (tutte cose buone), esitiamo senza concludere nulla. Ci sono situazioni e tribolazioni che Dio vorrebbe risparmiarci ma che invece permette perché sono l’unico modo con il quale può ottenere da noi, se non ragioniamo troppo, la pratica della supplica e l’arrenderci nelle sue braccia di Padre.
Intercedere significa camminare in mezzo, pronti ad aiutare ciascuna delle due parti o interporsi a favore di una di loro. È come uno stare tra cielo e terra, tra Dio e gli uomini, uniti a Gesù, unico grande Mediatore tra Dio e gli uomini.
Non sempre ci è dato conoscere l’esito della nostra intercessione e questo può scoraggiare e demotivare nel continuare a pregare incessantemente. Il Cardinale Martini diceva che è come gettare un sacco di viveri aldilà di un alto muro. Non sappiamo come e quando qualcuno lo raccoglierà. Ogni preghiera va fatta nella pura fede, nell’abbandono totale al Padre. Dobbiamo credere che la preghiera verrà sempre esaudita lasciando a Dio i tempi e i modi.
Illimitata fiducia nella preghiera che si fonda sull’illimitata fiducia nella bontà Padre.
I monaci, da sempre, sentono in prima persona questa “missione” di stare davanti a Dio per il mondo intero e per la Chiesa. È l’amore di Dio che ci spinge ad intercedere per i nostri fratelli. San Silvano del Monte Athos ha una grande fede nella potenza della preghiera per il mondo e ci lascia questo insegnamento:
“Grazie ai monaci la preghiera non si ferma mai sulla terra ed è questa la loro utilità per il mondo. Il mondo si sostiene grazie alla preghiera, se la preghiera cessasse, il mondo perirebbe”.
(*) abate del Monastero Trappista di Frattocchie (Rm)