Non sono “le palme” l’oggetto della nostra devozione, ma Gesù, che muore per salvarci

Accompagnando festanti con fede e devozione il Salvatore nel suo ingresso nella Città Santa i cristiani chiedono in questa liturgia la grazia di seguirlo fino alla croce, per essere partecipi della sua Risurrezione ed essere così liberati dalla schiavitù della morte. Anche quest’anno siamo chiamati a vivere questa festa senza la sua naturale processione festante, da una parte potremmo definirla una domenica “senza” Palme, ma dall’altra rappresenta un tempo privilegiato in cui il messaggio del Signore non viene meno.

Foto Calvarese/SIR

“La Commemorazione dell’Ingresso del Signore a Gerusalemme si celebri all’interno dell’edificio sacro; nelle chiese Cattedrali si adotti la seconda forma prevista dal Messale Romano, nelle chiese Parrocchiali e negli altri luoghi la terza”. Con queste brevi e semplici parole la Congregazione del Culto Divino invita i vescovi e i sacerdoti di tutto il mondo a celebrare la Domenica delle Palme. Sono le indicazioni, in tempo di pandemia, con cui siamo chiamati a vivere in una forma più sobria ma non meno significativa, l’ingresso del Signore a Gerusalemme. La riforma liturgica ha voluto mantenere per la Domenica delle Palme un doppio carattere legato, da un lato, alla lettura della Passione del Signore, e dall’altro, alla commemorazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Questo per sottolineare che la liturgia di questa Domenica è preludio alla Pasqua, alla quale l’assemblea dei fedeli si sta preparando con la penitenza e con le opere di carità fin dall’inizio della Quaresima. Gesù entra in Gerusalemme per dare compimento al mistero della sua morte e risurrezione. L’episodio dell’ingresso di Cristo nella Città Santa è narrato in tutti e quattro i Vangeli e rimanda all’antica festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, nella quale gli ebrei celebravano il ricordo della liberazione d’Israele dall’Egitto, dove, per quarant’anni il popolo era vissuto nelle capanne. Per questa occasione i fedeli arrivavano in massa a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Il libro del Levitico descrive come gli ebrei portassero in mano e sventolassero un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). La palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio. Accompagnando festanti con fede e devozione il Salvatore nel suo ingresso nella Città Santa i cristiani chiedono in questa liturgia la grazia di seguirlo fino alla croce, per essere partecipi della sua Risurrezione ed essere così liberati dalla schiavitù della morte. Anche quest’anno siamo chiamati a vivere questa festa senza la sua naturale processione festante, da una parte potremmo definirla una domenica “senza” Palme, ma dall’altra rappresenta un tempo privilegiato in cui il messaggio del Signore non viene meno. I cristiani sanno bene che ogni situazione, anche la più sofferta, se vissuta nell’obbedienza nell’ascolto umile e attento della voce dello Spirito, porta frutto e rinnova la fede. Una “Domenica senza Palme” può trasformarsi allora in una straordinaria occasione per ripensare la nostra fede.

Un tempo di grazia per ricordarci che l’oggetto della nostra devozione non sono “le Palme”, né che la domenica che apre alla Settimana Santa si riduca al solo portare a casa quel ramo di ulivo, indispensabile a garantire un anno di protezione alla nostra casa.

La domenica delle palme ci invita ad accogliere Gesù, il Figlio di Dio, il giusto e vittorioso, umile, che entra trionfante a Gerusalemme cavalcando un asino, un puledro figlio d’asina, e un ramo d’ulivo, seppur benedetto, non ci salverà.

Anche questa “Domenica senza Palme” allora, se accolta nella fede, sarà un’altra straordinaria occasione che il buon Dio ci dona per ricordare ai nostri cuori che

a salvarci non saranno le devozioni né le suggestive processioni, ma solo Gesù,

“uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is. 53, 3), che guarisce l’umanità attraverso le sue santissime piaghe.

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