“Tacciano le armi! Basta violenze, estremismi, fazioni, intolleranze!”. La violenza, l’odio, lo spargimento di sangue “sono incompatibili con gli insegnamenti religiosi”. Il primo giorno del primo Papa della storia a mettere piedi sul suolo iracheno – prima dal palazzo presidenziale di Baghdad e poi dalla cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza, dove il 31 ottobre del 2010 sono stati uccise 48 persone, tra cui due sacerdoti, delle quali è in corso la causa di beatificazione – è un unico e accorato appello alla pace, di cui ha sete un popolo martoriato che ancora porta incise nei cuori le “ferite di tante persone e comunità che avranno bisogno di anni e anni per guarire”. Quello lanciato da Papa Francesco non solo agli iracheni, ma a tutto il mondo in questo tempo di pandemia è un invito a “camminare insieme, come fratelli e sorelle”, come recita il motto del suo 33° viaggio apostolico.
“Oggi l’Iraq è chiamato a mostrare a tutti, specialmente in Medio Oriente, che le differenze, anziché dar luogo a conflitti, devono cooperare in armonia nella vita civile”,
la consegna per la terra di Abramo nel primo discorso, rivolto alle autorità, alla società civile e al Corpo diplomatico. Insieme ad un appello rivolto alla comunità internazionale:
“Auspico che le nazioni non ritirino dal popolo iracheno la mano tesa dell’amicizia e dell’impegno costruttivo, ma continuino a operare in spirito di comune responsabilità con le autorità locali, senza imporre interessi politici o ideologici”.
Quella indicata da Francesco nel suo primo discorso a Bagdhad è una precisa rotta di navigazione. Il punto di partenza è la pandemia in corso, per uscire dalla quale non basta un’equa ripartizione dei vaccini: serve il ripensamento dei nostri stili di vita. È la stessa inversione di rotta necessaria per rimuovere il peso di “morte, distruzione e macerie”, non solo materiali, ancora oggi visibili in Iraq e provocate dal fondamentalismo “che non può accettare la pacifica coesistenza di vari gruppi etnici e religiosi, di idee e culture diverse”.
“Si tratta di uscire da questo tempo di prova migliori di come eravamo prima; di costruire il futuro più su quanto ci unisce che sui quanto ci divide”, l’invito di Francesco, a partire dalla consapevolezza che “la diversità religiosa, culturale ed etnica, che ha caratterizzato la società irachena per millenni, è una preziosa risorsa a cui attingere, non un ostacolo da eliminare”.
La strada verso quella che il Papa chiama la “coesistenza fraterna” è ardua e ha bisogno della collaborazione di tutti – “nessuno sia considerato cittadino di seconda classe” – compresa quella cooperazione su scala globale che spetta alla comunità internazionale:
“Auspico che le nazioni non ritirino dal popolo iracheno la mano tesa dell’amicizia e dell’impegno costruttivo, ma continuino ad operare in spirito di comune responsabilità con le autorità locali, senza imporre interessi politici o ideologici”.
La religione, per sua natura, deve essere al servizio della pace e della fratellanza, ricorda Francesco sulla scorta del Documento di Abu Dhabi: “L’antichissima presenza dei cristiani in questa terra e il loro contributo alla vita del Paese costituiscono una ricca eredità, che vuole poter continuare al servizio di tutti. La loro partecipazione alla vita pubblica, da cittadini che godano pienamente di diritti, libertà e responsabilità, testimonierà che
un sano pluralismo religioso, etnico e culturale può contribuire alla prosperità e all’armonia del Paese”.
Nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad, luogo del suo secondo discorso in Iraq, davanti a un centinaio di persone che lo accolgono festose con i loro canti tradizionali mettendogli al collo una corona di fiori gialli, il Papa cita due volte, all’inizio e alla fine del suo discorso, il “sangue dei nostri fratelli e sorelle che qui hanno pagato il prezzo estremo della loro fedeltà al Signore e alla sua Chiesa”.
“La loro morte – il riferimento all’attentato terroristico di dieci anni fa – ci ricorda con forza che l’incitamento alla guerra, gli atteggiamenti di odio, la violenza e lo spargimento di sangue sono incompatibili con gli insegnamenti religiosi”.
Lo sanno bene i vescovi, che il Santo Padre ringrazia per essere rimasti vicino al loro popolo durante la guerra e le persecuzioni. “Vicinanza”, ancora una volta, è la parola-chiave di una Chiesa che sappia “uscire in mezzo al gregge” per accompagnarlo nelle città e nei villaggi, avendo cura soprattutto di chi rischia di restare indietro. Come i giovani, “ricchezza incalcolabile per l’avvenire” e tesoro prezioso per l’Iraq. Il sogno di Francesco, che al termine del suo secondo discorso cita la tappa di domani a Ur, è quello di una tappeto i cui fili sono “le diverse Chiese presenti in Iraq, ognuna con il suo secolare patrimonio storico, liturgico e spirituale”. Tanti singoli fili colorati che, intrecciati insieme, compongono un unico bellissimo tappeto di fraternità ideato da uno stesso artista che si chiama Dio. “Come è importante questa testimonianza di unione fraterna in un mondo spesso frammentato e lacerato dalle divisioni!”.