“Perché vuoi diventare prete? Cosa ti spinge a seguire le orme di Gesù fino all’estremo sacrificio? Sei pronto ad accogliere i drammi e le ferite di te stesso e delle comunità, alle quali verrai affidato, e a portarle sull’altare del sacrificio quotidiano?”. Quante volte ho rivolto queste domande ai seminaristi che si preparavano al sacerdozio. Dal 2001 al 2011, come visitatore apostolico dei Seminari d’Italia, ho avuto la fortuna d’incontrare, da Nord a Sud, migliaia di giovani in discernimento vocazionale. Tanti di loro ora sono preti. Ciò che mi ha sempre fatto riflettere è la risposta dei più alle mie domande, volutamente provocatorie, proprio per scrutare nel profondo dei cuori: “Voglio essere riflesso dell’amore di Dio in mezzo alla comunità cristiana, un segno visibile nel mondo di tutti i giorni”.
Nei mesi di pandemia da Covid-19, sono tornato spesso con la memoria agli incontri che ho avuto la fortuna di vivere con i futuri preti. Soprattutto nelle settimane di ricovero, perché anch’io ammalato di Covid, gli “appuntamenti” con le mie esperienze passate sono diventati frequenti. D’altronde, in una stanza di terapia intensiva si è anche agevolati da questa sorta d’introspezione. Ho pensato tanto al nostro donarci come sacerdoti; all’amore ricevuto e a quello donato; a tutte le opportunità di fare del bene non sfruttate. Ho pregato per tutti i malati, ho invocato il perdono per tutte le volte che non sono stato all’altezza. Ho ripetuto sovente dentro di me: “Signore, sono tuo”. Proprio come il giorno della mia ordinazione presbiterale. E così immagino abbiano fatto tutti i sacerdoti che hanno vissuto il loro servizio in mezzo al popolo di Dio, fino all’estremo sacrificio di se stessi.
Il sacerdote, scriveva don Primo Mazzolari, “è il viator non soltanto per l’inquietudine dell’eterno, che possiede in comune con ogni uomo, ma per vocazione e offerta. Si deve tutto a tutti, e lui non si può mai abbandonare interamente a nessuna creatura. È un pane di comunione che tutti possono mangiare, ma di cui nessuno ha l’esclusiva”.
Sono parole che ho trovato incarnate nei 206 preti diocesani morti in Italia, dal 1° marzo al 30 novembre 2020, di cui questo libro racconta il vissuto umano e pastorale. Sono stati pellegrini, come diceva don Mazzolari, «per vocazione e offerta».
Tanti di loro erano ancora in servizio, altri anziani; erano parroci di paesi, figure di riferimento per le nostre comunità, che hanno contribuito a costruire negli anni. Questo pellegrinare nella storia del loro ministero incrocia lo sviluppo sociale, civile e culturale del nostro Paese. Molto spesso si ha poca coscienza della capillarità delle nostre Chiese locali, nelle grandi aree urbane, ma soprattutto nei piccoli centri. Nelle une e negli altri, il pellegrinaggio di tanti sacerdoti sosta nelle vicende gioiose e sofferte degli uomini e delle donne, fino a diventarne tessuto connettivo. È il filo della memoria che si rinnova nell’umanità. Scorrendo le storie di questi uomini, ho notato come tanti morti siano stati parroci o vicari per decenni nello stesso luogo, in un’esistenza segnata dalla “normalità” del sacerdozio. Che dolore per quelli venuti a mancare in RSA o per complicazioni di malattie già in atto! Che testimonianza in chi è morto per restare accanto al popolo, accanto agli ultimi, come don Fausto Resmini, cappellano nel carcere di Bergamo.
“Come sacerdoti, figli e membri di un popolo sacerdotale” ha scritto Papa Francesco in una lettera indirizzata al clero romano il 31 maggio 2020 “ci spetta assumere la responsabilità per il futuro e proiettarlo come fratelli. Mettiamo nelle mani piagate del Signore, come offerta santa, la nostra fragilità, la fragilità del nostro popolo, quella dell’umanità intera. Il Signore è Colui che ci trasforma, che si serve di noi come del pane, prende la nostra vita nelle sue mani, ci benedice, ci spezza e ci condivide e ci dà al suo popolo”.
Nel tempo della pandemia, i sacerdoti hanno davvero espresso il volto bello della Chiesa amica, che si prende cura del prossimo. Hanno donato un esempio autentico di solidarietà con tutti. Sono stati l’immagine viva del Buon Samaritano, contribuendo non poco a rendere credibile la Chiesa.
Nel giorno dell’ordinazione abbiamo preso un impegno. “Vuoi essere sempre più strettamente unito a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre per noi, consacrando te stesso a Dio insieme con lui per la salvezza di tutti gli uomini?”.
“Sì, con l’aiuto di Dio, lo voglio” è stata la risposta di tutti questi sacerdoti, che hanno saputo renderla autentica e concreta con la testimonianza della loro vita.
(*) arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale italiana