“Alla sera della vita”, l’urlo di Giobbe potrebbe avere risposta

Con il documento "Alla sera della vita" la Chiesa italiana dona una parola felice, davvero felice, al tema della morte e del morire, argomento oggi dominato da una sorta di fatale cupio dissolvi. L’intuizione centrale del documento, curato dall’Ufficio per la Pastorale della Salute della Cei, è che il morire è un processo e che il processo del morire è un tempo relazionale, dove si intrecciano relazioni di cura, relazioni affettive e trame dense di umanità. Oppure trame rarefatte di umanità, abbandono, accanimento o disumanizzazione. Il morente è un soggetto relazionale e non un oggetto di cura. Nel processo del morire, inteso come un tempo relazionale intenso e potenzialmente ricco, in questo movimento processuale si costruisce il portato del senso e del significato della vita terrena.

“Oh, avessi uno che mi ascoltasse”, urla Giobbe, schiantato sul letto di morte. Ecco, questo è il cuore del documento Cei, dal titolo suggestivo ed inquietante, preso in prestito al mistico Giovanni dalla Croce, “Alla sera della vita”, con il quale la Chiesa italiana dona una parola felice, davvero felice, al tema della morte e del morire, argomento oggi dominato da una sorta di fatale cupio dissolvi. L’intuizione centrale del documento, curato dall’Ufficio per la Pastorale della Salute della Cei, è che il morire è un processo e che il processo del morire è un tempo relazionale, dove si intrecciano relazioni di cura, relazioni affettive e trame dense di umanità. Oppure trame rarefatte di umanità, abbandono, accanimento o disumanizzazione. Il morente è un soggetto relazionale e non un oggetto di cura. Nel processo del morire, inteso come un tempo relazionale intenso e potenzialmente ricco, in questo movimento processuale si costruisce il portato del senso e del significato della vita terrena. È dunque il kairos di ognuno di noi. Questo è il centro del documento. Da qui parte una riflessione potente e densa di significato.

È la qualità delle relazioni espresse dal contesto sociorelazionale a fare la differenza. Relazioni buone rendono inutile il richiamo eutanasico: “l’ombra dell’eutanasia scompare o diventa quasi inesistente” (Papa Francesco, 2018).

Il documento affronta senza reticenza questo punto fondamentale nell’ultimo capitolo: sono le nostre comunità cristiane capaci di accogliere la sfida dell’”esserci” in modo “sanante” nel processo del morire? La risposta è disarmante: sì, abbiamo tutti gli strumenti per farcela. O meglio, potenzialmente si: davvero possiamo non abbandonare nessuno nell’angoscia e nella sofferenza e testimoniare che “siamo destinati a qualcosa di più grande, nella gioia del Risorto”, come recita il documento stesso.

Nessuno scarto e nessuna espulsione.

È un capitolo in cui si affronta in modo pratico, concreto e senza retorica il tema dell’accompagnamento del morente e delle sue famiglie.

Ma vorrei fare altre due considerazioni sul documento.

La prima: a chi parla? Parla a tutti, non solo ai credenti. Ma la novità è nel metodo, perché lo fa perché scegliendo di confrontarsi con la scienza. È raro trovare nei documenti pastorali tanti e accurati riferimenti al contributo della scienza. Il documento entra in dialogo con il sapere e l’operare dei medici e degli operatori sanitari, con le riflessioni di comitati bioetici non confessionali, con la società reale. Non ci sono passaggi lunari, astratti e staccati dalla realtà che affronta. Anche le premesse antropologiche e morali (il tipico capitolo che salteremmo a piè pari dandolo per scontato e noioso) entra in dialogo con tutti quando riesce a dimostrare che “la sacralità della vita può essere riconosciuta da ogni intelligenza umana, credente e non credente”, sottraendola alla contrapposizione (perdente!) con la qualità della vita.

La seconda considerazione è strettamente correlata alla precedente. Quando il documento affronta le questioni scientifiche relative al processo di fine della vita terrena, accogliendo il dibattito scientifico in atto senza giudicarlo, ne coglie però un punto centrale, cioè la necessità di passare dal to cure (curare la malattia) al to care (prendersi cura della persona malata nelle sue dimensioni affettive, relazionali e spirituali). Su questo processo centrale della medicina attuale, supportato oggi da molte evidenze cliniche e scientifiche, l’urlo di Giobbe, inteso come la metafora del dolore dell’abbandono, finalmente potrebbe avere una risposta. Il documento ha l’intelligenza di affiancarsi a questa evoluzione del sapere medico, ponendo la Chiesa italiana come un interlocutore valido del to care e un soggetto attivo nel miglioramento dell’assistenza. In fondo, dove questo è avvenuto, la richiesta di eutanasia e di suicidio assistito è crollata del tutto. Come ben ha dimostrato il “Tavolo degli hospice cattolici e di ispirazione cristiana”, in nessun Hospice, cattolico e non, c’è mai stata una richiesta di eutanasia.

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