Don Angelo Grillo, classe 1970, prima parroco al Sacro Cuore e Immacolata di Pordenone, ora a Cordenons, è in convalescenza dopo aver contratto il Covid e dopo 19 giorni di ospedale, terapia intensiva compresa.
Quanti reparti hai passato?
Dal Pronto Soccorso alla pneumologia, quindi in terapia intensiva per 6-7 giorni, altri 3-4 di letto per riprendermi dopo l’esperienza della intubazione, quindi il passaggio in semintensiva, poi di nuovo in degenza in pneumologia. Al tampone negativo ancora qualche giorno in ospedale, trasferito in nefrologia. Qualche giorno ancora fino a che hanno potuto togliermi l’ossigeno. Complessivamente sono rimasto in ospedale dal 31 ottobre al 20 novembre.
Tutti hanno paura di essere intubati. Tu lo hai provato. Cosa succede?
Sinceramente ero più preoccupato di fare la tac, non per la tac in sé, ma perché in quel momento stavo molto male e ogni movimento comportava un mega respiro. Quello che io non riuscivo a fare.
Come si riesce ad affrontare una simile prova?
Io ho avuto non uno ma due punti di forza: una fiducia totale nei medici, una fede totale. E deve essere così: bisogna affidarsi completamente perché in quei momenti la vulnerabilità è totale. Ho fatto un atto di fiducia totale in Dio e ai medici. E poi a don Bernardino ho chiesto la confessione, ma neanche lui poteva entrare, comunque mi ha assolto. Poi la dottoressa, con dolore mi ha comunicato che mi dovevano intubare. Ma la serenità non mi è mai mancata.
Com’è l’intubazione?
Sei sedato, altrimenti non resisteresti. Anzi, mi hanno detto che non riuscivano ad addormentarmi profondamente, mi svegliavo. Ma io non ricordo nulla di quei giorni.
E quando tolgono il tubo?
Non lo tolgono subito.
Quando il peggio è passato si passa del tempo svegli ma ancora intubati. Li sì è dura.
E’ la fase di iniziazione: devono assicurarsi che una volta tolto, tutto vada come deve andare. Devo confessare che, quando finalmente mi hanno tolto il tubo dalla gola, io mi sono sentito l’uomo più felice della terra.
Come sei arrivato a tanto?
Non mi sembrava di stare malissimo all’inizio. Avevo febbre, malessere, l’ossigenazione tra 97-98 quindi buona. Sono comunque andato al pronto soccorso: mi hanno fatto camminare e ho superato il test. Quindi sono tornato a casa con una terapia di tachipirina e aerosol. Poi in due-tre giorni tutto è precipitato: il sabato non stavo in piedi e ho fatto chiamare dal cappellano il pronto soccorso. Così è cominciato tutto.
Isolati ma col telefono?
Quando mi sono ripreso e sono tornato in reparto mi hanno dato il telefono. L’ho aperto e ho trovato prima i messaggi della famiglia, poi non so dire quanti altri messaggi di vicinanza e sostegno.
L’atmosfera in ospedale?
Conoscevo tre quarti degli infermieri e medici. Questo per me è stato molto importante. Mi hanno sostenuto e incoraggiato. Mi dicevano: “Hai 50 anni, sei giovane, sei in buona salute, hai uno stile di vita sano e regolare, non bevi e non fumi…”.
Oggi come stai?
Sono in convalescenza. Ho fatto la visita per la fisioterapia per il recupero fisico e polmonare. Devo aumentare la capacità polmonare per tornare alla normalità.
Un messaggio ai parrocchiani.
Che questo Covid ha messo fuori uso tutti i sacerdoti a Cordenons, ma ha fatto splendere i laici che hanno preso in mano la situazione. Questa sofferenza ha tolto tanto, ma ha dato anche frutti nel senso della fede vissuta. Ho il convincimento che questa esperienza, per me durissima, non vada sprecata.
(*) direttrice de “Il Popolo” (Pordenone)