L’odissea per i disperati del Lipa non è ancora finita. Un piccolo spiraglio di luce nel buio di una situazione che negli ultimi giorni si era trasformata in una vera e propria tragedia umanitaria, consumata al confine tra Bosnia e Croazia, si era aperto nella mattina di martedì 29 dicembre. Dieci pullman sono arrivati nei pressi del campo, andato in fiamme il 23 dicembre scorso, con l’obiettivo di trasferire i circa cinquecento migranti rimasti per una settimana intera, all’addiaccio, senza alcun tipo di protezione, con neve e temperature sotto lo zero, in questa località isolata tra i boschi a circa 30 km dal capoluogo Bihac, nel Cantone di Una Sana.
Poche ore dopo è arrivata la conferma del ministro per la sicurezza del governo bosniaco, Selmo Cikotic, rilanciata dai media locali, che ha confermato la volontà di trasferire i migranti verso un’ex caserma delle forze armate a Bradina nel comune di Konjic in Herzegovina, tra Sarajevo e Mostar. Le autorità locali hanno però espresso dure critiche al governo centrale appellandosi contro questa decisione: Osman Ćatić, il sindaco di Konjic, ha dichiarato alla stampa di non sapere nulla del trasferimento, mentre un gruppo di cittadini ha circondato la caserma per impedire l’arrivo dei bus.
Lo scontro politico e le proteste – da indiscrezioni di stampa avrebbero coinvolto anche diversi ministeri – hanno bloccato la partenza dei bus costringendo i migranti a trascorrere l’intera giornata e la notte saliti a bordo dei mezzi, rimasti fermi nei pressi del campo.
“Quella che stiamo vivendo è una pagina buia, nella già oscura storia delle migrazioni nei Balcani occidentali”, racconta al Sir, Silvia Maraone, operatrice di Ipsia Acli e coordinatrice dei progetti della rete Caritas-Acli al confine tra Bosnia e Croazia. La Croce Rossa di Bihac, partner della rete, è stata l’unica realtà a cui è stato consentito l’accesso al campo per portare cibo e bevande calde in questi lunghi sette giorni. “Stiamo assistendo – continua Maraone – all’ennesimo braccio di ferro tra autorità che si sta consumando sulla pelle di centinaia di persone che sono a rischio della loro stessa vita”.
Da una parte ci sono le autorità locali che chiedono al governo centrale di farsi carico del problema e spingono per il trasferimento dei migranti e il blocco degli arrivi. Dall’altra c’è il fragile governo bosniaco che fatica a farsi carico di una situazione complessa in un Paese fortemente provato da una profonda crisi economica e sociale.
Nel mezzo le Organizzazioni Internazionali, come l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (Iom) e l’Unhcr, che cercano di prestare aiuto alla popolazione e di fare pressioni perché si trovino soluzioni, ma senza riuscire realmente ad incidere. Spettatrice interessata di questa lotta – in cui una sola cosa è chiara (i migranti sono una patata bollente che nessuno vuole gestire) -, si trova l’Unione europea che da tempo gioca un ruolo duplice e contraddittorio: principale finanziatrice del governo e delle Organizzazioni Internazionali in materia di accoglienza, non è stata in grado, in questi anni, di offrire una reale soluzione politica a quanti restano bloccati nel limbo balcanico. Davanti a loro si alza infatti il confine croato, sempre più controllato e militarizzato anche grazie a fondi e uomini messi a disposizione da Bruxelles.
Ma quanto successo a Lipa in questi giorni è solo l’ultimo capitolo di una lunga e triste storia. All’inizio di dicembre in una dura lettera inviata al presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia Erzegovina Zoran Tegeltija, la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic aveva chiesto conto della crisi umanitaria in corso nel Cantone di Una Sana. Parole rimaste a lungo inascoltate.
Nell’attesa di sapere quale sarà la sorte dei migranti del Lipa resta alta la preoccupazione per quanti vivono in rifugi informali nel Cantone di Una Sana: secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni erano circa tremila i migranti e richiedenti asilo ospitati nel Cantone. La metà di questi erano al Lipa, ma solo una parte – non più di 500 – è sui pullman per essere trasferita.
Altri hanno lasciato il campo nei giorni scorsi cercando rifugio in edifici abbandonati oppure decidendo di tornare indietro verso la capitale Sarajevo. Per chi è rimasto l’unica possibilità resta quella di provare il “game” ovvero il tentativo di passare il confine attraverso i boschi. Per la maggior parte di loro sarà un tentativo vano che li riporterà, spesso dopo pericoli e violenze da parte delle forze che pattugliano il confine (come recentemente denunciato anche da un’inchiesta di Avvenire e da altre testati internazionali) al punto di partenza. Ma fino a quando?
“Ogni inverno il problema si ripete – conclude Maraone – e le soluzioni che vengono trovate sono quasi sempre provvisorie: servono soluzioni di lungo periodo, ma purtroppo sembra che nessuno qui, come a Sarajevo o Bruxelles voglia farsene carico”.