Un Natale diverso, sicuramente per come lo festeggeremo esteriormente, ma non per questo sminuito nel suo significato. Un Natale in cui potremmo andare al senso più profondo della festa, anche se questo non è scontato, la riscoperta del valore della famiglia, la necessità di riscoprirci fratelli. Si tratta di una sfida, anzi di una “grazia” da cogliere dentro la crisi generata dal Covid-19. Ne parliamo con mons. Domenico Sorrentino, arcivescovo-vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino.
Eccellenza, quest’anno vivremo anche Natale, dopo Pasqua, in un tempo eccezionale, segnato dal Covid. Quale augurio si sente di rivolgere da Assisi?
Un augurio di pace vera.
Quella che prende il cuore e ci consola, al pensiero che, anche nelle ore più difficili, non siamo mai soli. A Natale, Dio si presenta davvero come l’Emmanuele, Dio con noi. La pace può venire solo da Lui. E la riceviamo se ci sentiamo amati da Lui. La nuova traduzione del Gloria ce lo ricorda: “Pace agli uomini, amati dal Signore”. Il che non ci toglie il dovere della “buona volontà”. Ma guai se ci fidassimo solo di questa. Il saluto di pace di san Francesco non era solo un augurio, ma una preghiera: “Il Signore ti dia la pace”.
Molti sono preoccupati di “salvare” il Natale, dimenticando che è Gesù che viene a salvare noi…
Se per “salvare il Natale” si vuole intendere viverlo per quello che è, non è male. C’è infatti il rischio che si parli ancora del Natale, senza sapere più di che cosa si tratta. C’è un “business” del Natale a cui eravamo così abituati che la “sottrazione” dovuta al Covid ci sta facendo sentire un po’ “orfani” di qualcosa a cui non possiamo più rinunciare. Certo, l’economia è in affanno e aiutarla esige anche un certo grado di consumo. Non il consumismo egoistico, ma un consumo solidale. Il Natale degli “alberi”, di “Babbo Natale”, dei presepi, delle luminarie fa la sua parte. La fede si fa anche cultura in modo gioioso e creativo e tutto può essere utile ad esprimere la bellezza del Natale. Ma dobbiamo tornare a capire che a Natale parliamo di Gesù. Quel Bimbo di Betlemme è il nostro Dio, il Salvatore.
Questo Natale così particolare ci permette di andare, forse, al senso più profondo della festa?
Non è automatico, ma è una possibilità. Direi una opportunità. È la sfida che siamo chiamati a raccogliere in questa pandemia che ci mette alle corde: far diventare positivo il negativo.
Accogliere la “grazia” che si nasconde dietro la “crisi”.
Sta avvenendo così per tante cose. La pandemia ci sta riconsegnando il valore delle famiglie, la necessità di rallentare i nostri ritmi, l’urgenza di riflettere sulle fragilità del nostro mondo, il bisogno di tessere rapporti di solidarietà. Ci sta ponendo domande di “senso”. Ci sta interrogando sulla fede persino spingendoci a riscoprire la preghiera nelle case. Sono cose su cui dobbiamo puntare.
Il Natale segnato dal Covid ci costringe a rifare i conti. Se riusciamo a viverlo così, sarà sicuramente un Natale più vero.
Natale è anche il tempo dei buoni propositi, eppure con la pandemia i poveri sono diventati ancora più poveri e tante famiglie sono sprofondate nella povertà. In più assistiamo, pur essendo “tutti sulla stessa barca”, a un esacerbamento di chiusure ed egoismi. Come invertire questo trend negativo per aprirsi agli altri e guardarli come “fratelli”, come c’invita a fare il Papa nell’enciclica “Fratelli tutti”?
È vero: tutti soffriamo, ma c’è chi soffre di più. Tanti uniscono alle sofferenze morali il peso dei loro bisogni materiali. Questo succede anche vicino a noi, ma ancor più se lo sguardo si spinge oltre, alle regioni più povere del mondo. Com’è brutto che, nonostante questa “scuola” di un dolore universale, non riusciamo ad aprirci a un amore universale. Ancora si ripete da tanti, come una cosa scontata, “prima noi poi loro”. Come se “loro” non fossero fratelli. Come se il loro appartenere a una regione, a una cultura, a una religione diversa dalla nostra, ci esimesse dal dovere di sentirli e trattarli come fratelli.
Nel mistero del Natale prende una luce nuova anche la nostra fraternità: Dio è venuto a farci “figli nel Figlio”, dunque fratelli tra di noi.
Non ci è lecito ragionare con categorie che separano ed emarginano. Ma come invertire questa tentazione egocentrica? Non basta certo una predica. La pandemia sta facendo emergere tanti testimoni di solidarietà. Testimoni gioiosi. È la predica dei fatti, quella che conta di più.
In un anno così segnato dal dolore, che parola di conforto possiamo dire a medici e infermieri che cercano di salvare vite in ospedale, ai malati che combattono la loro battaglia e ai familiari che aspettano a casa di vederli tornare o a coloro hanno perso un loro caro?
Ci sono casi tanto dolorosi, da lasciare senza parole. Ma in tanti altri casi, una parola può essere opportuna. E non può essere che una parola di “vicinanza”.
Paradossalmente, la pandemia che ci “distanzia” può diventare un ponte che ci unisce.
Personalmente non amo l’espressione “distanza sociale”. Preferirei “distanza precauzionale”, dettata dall’emergenza, ma pur sempre dentro una logica di “vicinanza sociale”, che non si esprime necessariamente negli incontri fisici, tanto meno negli “assembramenti” dissennati. Sono convinto che la Chiesa abbia il dovere di riscoprire innanzitutto al suo interno – per riproporre credibilmente alla società – questa dimensione di “vicinanza familiare”. Cosa tanto difficile, quando si è smarrito il senso della famiglia. Nel Vangelo tutto comincia con la famiglia: quella di Nazaret e poi quella di Gesù con i discepoli. Una vera famiglia spirituale. Ad Assisi ne abbiamo tratto ispirazione per un progetto di rinnovamento delle parrocchie all’insegna delle “piccole comunità”, che non a caso chiamiamo “famiglie del Vangelo”. In questo periodo di “distanziamento precauzionale”, le famiglie spirituali hanno un ruolo doppio. Anche se solo con la preghiera vicendevole o con rapporti mediati dai social, sono chiamate a tessere relazioni vitali, a diffondere la gioia del Natale. Ai medici, agli infermieri, agli operatori più direttamente chiamati in causa, occorre dire solo “grazie”, senza stancarci di dirlo anche in questa seconda fase. A quanti poi sono colpiti dal lutto, magari privati anche del conforto di un ultimo addio ai loro cari, non c’è che da dare un abbraccio. Nei modi possibili in questo tempo, ma mettendoci dentro tanto cuore.
Anche i ragazzi sono stati pesantemente colpiti dall’emergenza sanitaria, hanno dovuto rinunciare alla scuola in presenza, alla compagnia degli amici, a una vita piena. Che augurio rivolge a loro, nel segno di Carlo Acutis, che è stato beatificato proprio quest’anno ad Assisi?
A loro presenterei il sorriso di questo ragazzo davvero affascinante. Si può sorridere anche quando la vita ti travolge (lui venne stroncato a 15 anni!) e ti sottrae le cose più belle? Sì, a condizione che se ne abbia un motivo forte. Carlo diceva: la tristezza è lo sguardo rivolto verso noi stessi, la felicità è lo sguardo rivolto a Dio. Guardando a Dio tutte le cose diventano più belle. La vita si illumina.
Ai ragazzi vorrei dire: non smettete di sorridere. Senza il vostro sorriso, cosa sarebbe il mondo?