“Il vero pericolo è che cadiamo tutti in letargo”. Alla vigilia di The Economy of Francesco Giuseppe De Rita, presidente del Censis, mette in guardia da una concezione dello sviluppo socio-economico e politico che non tenga conto della “discontinuità”. E spiega al Sir, forte dei suoi 70 anni di osservatore delle dinamiche sociali perché i “corpi intermedi” devono recuperare vitalità, se si vuole invertire davvero la rotta: “Senza dialettica non c’è sviluppo: se tutti stiamo fermi ad aspettare un bonus, lo sviluppo non c’è. La convinzione che lo sviluppo è dato da una dialettica di soggetti, e non da un soggetto solo, è la consapevolezza che dobbiamo acquisire”.
Con l’emergenza causata dal Covid-19, l’attuale scenario socio-politico ha di certo conosciuto una discontinuità rispetto al passato. Come lo descriverebbe?
Lo sviluppo non è mai equilibrato, come dimostrano le teorie degli Anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. È un processo discontinuo, non significa mai l’andare tutti insieme verso un traguardo meraviglioso. Se non accettiamo questo, diventiamo prigionieri di una bontà d’animo che certo è un sentimento nobile e da perseguire, ma quando si trasforma in buonismo non è realistico. La Chiesa, a mio avviso, corre questo pericolo: cadere in una teoria “migliorista” dello sviluppo, quando parla di clima, di sviluppo, di economia circolare. Tutte cose bellissime, ma che si scontrano con una storia che vive momenti di discontinuità. E uno di questo è proprio il momento che stiamo vivendo e che sul piano dello sviluppo ha posto sfide profonde a cui non sappiamo rispondere. Basti pensare a come gli italiani hanno reagito al Covid: con un residuo di una vecchia cultura sociale, col bonus per tutti.
Se non accettiamo, invece, che lo sviluppo è una continua serie di squilibri, rimaniamo prigionieri del primo squilibrio che arriva, e che poi sarà seguito da un secondo, da un terzo squilibrio, e così via.
“Siamo sulla stessa barca, nessuno si salva da solo”, ripete spesso il Papa: è un messaggio che l’Italia, l’Europa, il mondo secondo lei riescono a percepire? O l’individualismo è destinato ancora una volta a prevalere?
In settant’anni di studi sui meccanismi fondamentali della cultura sociale ho imparato che lo sviluppo non è fatto da una persona sola, ma dai soggetti della società: lo Stato, il mondo dell’imprenditoria, il sindacato, gli enti intermedi. Abbiamo per troppo tempo pensato, me compreso, che lo Stato fosse il soggetto generale dello sviluppo. Col passare dei decenni ho capito che lo sviluppo è fatto da tanti soggetti, e che tutti questi soggetti danno risultati anche conflittuali: è questa lotta che porta poi a quello che chiamiamo sviluppo.
Senza dialettica non c’è sviluppo: se tutti stiamo fermi ad aspettare un bonus, lo sviluppo non c’è. La convinzione che lo sviluppo è dato da una dialettica di soggetti, e non da un soggetto solo, è la consapevolezza che dobbiamo acquisire.
E proprio di un rilancio dei “corpi intermedi” parla il Papa, nel quinto capitolo della Fratelli tutti, interamente dedicato alla politica. È la mediazione, l’aspetto da recuperare?
Quello dei soggetti intermedi è uno dei capisaldi della mia riflessione, soprattutto da presidente del Cnel. È vero, bisogna recuperarne il ruolo e il valore, ma per farlo i soggetti intermedi devono avere una loro vitalità. Non si può dire che i corpi intermedi devono essere valorizzati se poi questi soggetti non si mettono mai in gara perché aspettano una mediazione. Nel dopoguerra si scontravano due culture: una cultura, per dire così, “montiniana”, e una “pacelliana”. La prima vedeva nello Stato il soggetto generale dello sviluppo e nei corpi intermedi solo la mediazione. Poi c’era un’altra cultura, sempre sottovalutata e a volte disprezzata, che vedeva lo sviluppo come il risultato di una corsa, anche conflittuale, tra i vari soggetti che compongono la società. I soggetti intermedi, nella cultura “pacelliana”, sono soggetti a pieno titolo, dialetticamente autonomi, rispetto ai grandi disegni dello Stato.
Se vogliamo che i soggetti intermedi siano vitali, dobbiamo abituarci all’idea che la mediazione la fa la politica: i corpi intermedi devono riprendersi la dignità di soggetti dialettici che operano in proprio, e non come puri mediatori.
Papa Francesco, nella Fratelli tutti, auspica la fraternità come antidoto ad una economia globalizzata che produce solo scarti, anche umani. È la mancanza di relazione il deficit più grave del nostro tempo?
Il vero pericolo è che cadiamo tutti in letargo, e se il letargo si protrae troppo a lungo la passività finisce per prevalere. Non ci si risveglia più come prima, non si ricarica la vitalità. Nel dopoguerra eravamo tutti ex poveri che volevamo diventare ricchi: c’era una carica vitale spaventosa. Abbiamo avuto quarant’anni straordinari, e la leva di partenza era proprio la voglia di stare insieme, di recuperare la relazione. È da lì che comincia lo sviluppo: la relazione crea dialettica. Negli ultimi quindici anni, invece, abbiamo assistito ad una rottura delle relazioni, sostituite dall’ideologia del “vaffa”. Recuperare le relazioni è il primo impegno che bisogna prendersi, per recuperare la dialettica, la speranza, comune, la voglia di lavorare insieme e di non isolarsi. Di non cadere in letargo.