Li chiamano “cuccioli dell’Isis”, sono i bambini jihadisti cresciuti nel Califfato. Durante le fasi più cruente e tragiche dell’avanzata Isis in Iraq e in Siria li abbiamo visti, nonostante la loro giovanissima età, sparare, sgozzare, compiere vere e proprie esecuzioni sommarie. Ma chi sono questi cuccioli del Califfato? Come vengono reclutati e addestrati? Che ruoli ricoprono? E, soprattutto, come reinserirli e integrarli? Il Sir lo ha chiesto a padre Stefano Luca, autore del libro “I cuccioli dell’Isis. L’ultima degenerazione dei bambini soldato” (Edizioni Terrasanta). Il religioso, dal 2019, dirige il dipartimento di Teatro sociale dei Frati minori cappuccini (capsocialtheatre.org) portando avanti il programma “Contro l’estremismo – Programma di teatro sociale per la riabilitazione e la reintegrazione dei bambini jihadisti/estremisti” che punta “a disinnescare l’imprinting jihadista dei cuccioli del Califfato, restituendo loro un nome e un futuro”.
Padre Luca, da tempo si parla di bambini soldato. Meno conosciuto, invece, sembra il fenomeno dei bambini jihadisti…
Il libro studia il fenomeno dei bambini jihadisti per farlo conoscere e per individuare interventi di riabilitazione di questi piccoli. Il punto di partenza è un lavoro condotto in Africa sub sahariana, come Frati cappuccini della Lombardia, proprio per formare operatori locali alla presa in cura di bambini soldato, utilizzando tecniche di teatro sociale. Spostando l’attenzione dall’Africa al Medio Oriente è emersa in tutta la sua drammaticità la condizione dei bambini jihadisti che mostra differenze rispetto a quella dei bambini soldato nel Sub Sahara. Così per progettare un intervento concreto anche per questi “cuccioli” ho cominciato a studiare il portato teologico dell’Isis, la giurisprudenza, il progressivo slittamento al jihadismo, la dottrina così come la si deduce dal Corano, dagli hadith, dalla shari’a, dalla Sunna, dai vari giuristi dell’Islam, dalle fatwe degli imam e dalla tradizione lungo i secoli fino ai giorni nostri. Oggi siamo giunti ad un jihadismo 4.0, una dimensione che non solo propone contenuti mediatici ma che realmente costruisce una visione ‘altra’ che, contrapponendosi alla realtà, ne confonde la comprensione. Ed è in questo sfondo che si muove il fenomeno dei bambini jihadisti.
Quali sono le differenze tra i bambini soldato e i bambini jihadisti?
Le ritroviamo nel reclutamento, nell’istruzione e nella religiosità. Il reclutamento: i bambini nell’Africa sub sahariana vengono reclutati con la violenza dai gruppi armati, dopo aver saccheggiato i loro villaggi. Vengono costretti a perpetrare atrocità contro i loro stessi genitori e familiari così da legarli psicologicamente alla milizia armata. Nei bambini jihadisti, invece, non esiste nessun reclutamento violento. Nel 90% dei casi questo avviene per desiderio dei genitori, spesso a loro volta jihadisti.
Sono bambini cresciuti con il latte dell’integralismo, educati all’estremismo.
L’istruzione scolastica: una volta reclutati con la violenza i bambini soldato non vanno più a scuola. Vengono addestrati a sparare, a portare le munizioni e a compiere mansioni militari. L’Isis invece apre le scuole: i bambini jihadisti vanno a scuola, hanno dei libri testo dove le materie studiate sono tutte filtrate attraverso la lente del fondamentalismo. Si tratta di un abominevole indottrinamento. Nelle scuole dell’Isis sono in uso oltre 40 libri di testo. La religiosità: nei bambini soldato il lavaggio del cervello viene fatto utilizzando solo qualche input religioso deformato ed estremizzato, preso a caso dalle diverse tradizioni religiose di appartenenza dei bambini. Con l’Isis, invece, tutto è basato sullo studio teologico, sociale, giuridico e morale dell’Islam. Ne è un esempio la produzione di favole sul martirio che le madri leggono ai loro figli al momento di metterli a letto. I bambini dell’Isis nascono nello Stato Islamico. I bambini soldato africani, prima del reclutamento forzato, vivevano una certa normalità nel loro villaggio. Hanno vissuto una vita diversa. I figli dell’Isis hanno conosciuto solo lo Stato Islamico.
Che ruolo hanno i bambini jihadisti nell’Isis?
Ricoprono diversi ruoli e in questo si avvicinano ai bambini soldato africani. Per tutti la base di partenza è la “spia”. Poi in base alle doti possedute possono dedicarsi alla predicazione e all’arruolamento di altri coetanei, oppure al combattimento vero e proprio, addestrati in campi ad hoc. Alcuni di questi bambini possono diventare boia – li abbiamo visti in tanti filmati di propaganda – e martiri. Questi ultimi vengono individuati già all’età di 8 o 9 anni. Credendo lealmente all’ideologia, i bambini hanno meno paura degli adulti a compiere gesti estremi. La missione suicida è il massimo degli onori, vuol dire essere un jihadista puro. Oggi la tecnologia ha abbassato l’età perché basta avere un telefonino in mano per comandare a un drone di sganciare bombe. Si riesce a combattere, a sostenere un conflitto, anche giocando con il telefono.
La definizione “bambini soldato” comprende anche le ragazze reclutate per fini sessuali e per matrimoni forzati. È lo stesso per le bambine jihadiste?
I bambini sono chiamati “cuccioli”, le bambine invece “fiori del Califfato”, “perle del Califfato”. Nello Stato Islamico la donna ha il ruolo di costruire la società procreando e educando i figli sin da tenera età.
Le bimbe dell’Isis vengono fatte sposare precocemente, sono educate a questo, forse è anche per tale motivo che sembrano non avere la percezione di essere abusate. Sono anch’esse dentro questo filone di indottrinamento. Così contribuiscono al jihad.
È possibile scardinare l’imprinting jihadista di questi bambini e aiutarli così a reinserirsi?
Tutto il loro mondo è permeato dalla visione jihadista, pertanto se non si interviene in questo ambito è impossibile la presa in cura di questi bambini. Sono cresciuti in una realtà di violenza, è necessario, quindi, aiutarli a riscrivere la loro vita senza la violenza. Il programma “Contro l’estremismo – Programma di teatro sociale per la riabilitazione e la reintegrazione dei bambini jihadisti/estremisti” mira proprio a disinnescare l’imprinting jihadista di questi bambini e riscrivere una grammatica relazionale fatta di sentimenti che, se inseriti all’interno di un’azione psicoterapeutica, arrivano a smuovere e riaprire la persona riscrivendone gli affetti e le relazioni, anche fisiche. Abbiamo avviato questo programma nel 2016 in Repubblica democratica del Congo coinvolgendo e formando gli operatori locali. Ora speriamo di avviare quanto prima un analogo programma anche per i bambini jihadisti.
Come è organizzato il progetto?
Il programma prevede la formazione di operatori locali in accordo con gli imam del posto, così come è avvenuto ad Aleppo, per il progetto della Custodia di Terra Santa, denominato “Un nome, un futuro”. I passaggi sono tre: si parte con la “de-meccanizzazione” di tutto ciò che i bambini hanno appreso in precedenza. Il secondo step è basato sull’affido – il Mufti di Aleppo ha concesso, dopo attento studio, questa possibilità, poiché l’adozione nella teologia coranica non è possibile – e dunque sul lavoro anche con la famiglia affidataria. La terza fase è quella dell’autonomia e del reinserimento usando anche tecniche apprese sotto l’Isis: piuttosto che riparare un mitra, rimetto a posto un’automobile.
Il programma prevede anche il coinvolgimento della famiglia naturale dei bambini jihadisti?
Se per i bambini soldato africani lo scopo è il reinserimento nel villaggio e nella famiglia di origine, per i cuccioli di Isis non è così.
Questi bambini non devono essere riavvicinati alla famiglia di origine. Molti di loro oggi vivono in campi profughi con le loro mamme, se sono vive, pieni di rabbia perché hanno visto morire il papà jihadista. Non possono restare a contatto con genitori o familiari jihadisti.
Non si esclude a priori il ritorno nella famiglia originaria ammesso che questa abbia svolto un lavoro di de-radicalizzazione potente e autentico. Ma parliamo di una percentuale bassissima. Bisogna ricordare che la sconfitta militare dell’Isis non ne ha decretato la fine. Il seme del Califfato è piantato nei suoi figli e nel terreno dei media che ne determinano il rifiorire.
L’Isis resta radicato nella mentalità di tanti
ed è un fatto drammatico e potenzialmente pericoloso che va fronteggiato. Questi bambini vanno aiutati.