Nel Libano multiconfessionale, appena colpito dalla tragedia dell’esplosione al porto di Beirut, e ulteriormente perseguitato dal violento incendio del 10 settembre scorso – in totale sono 190 i morti e migliaia i feriti – la missione della Chiesa cattolica è diventata ancora più preziosa, in particolare quella salesiana. Ad Al Fidar, sulla costa, a circa 30 chilometri dalla capitale, i padri di don Bosco da tempo si rivolgono ai giovani di tutte le età e provenienze, con un’offerta diversificata di attività legate all’oratorio e al volontariato.
Adesso la loro missione si è intensificata. Tra i ragazzi che frequentano l’oratorio ci sono diversi rifugiati siriani, iracheni e palestinesi, che in questo momento di grande paura ed incertezza, si sono stretti attorno ai padri, e alle attività missionarie. A raccontarcelo, da Beirut, è don Simon Zakerian, missionario salesiano di origini siriane, che con gli altri confratelli si è fin da subito adoperato per alleviare le pene della popolazione colpita dalla sciagura del 4 agosto scorso. “Sappiamo che le famiglie che vivono vicino al porto, e anche quelle dei campi profughi, lontane da lì, continuano ad avere paura. Lo shock è stato forte e noi facciamo di tutto per portare un po’ di gioia e far dimenticare loro il rumore assordante di quell’esplosione che somigliava a quello delle bombe”, racconta don Zakerian. Secondo i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ammontano a 200mila le famiglie le cui abitazioni sono state seriamente compromesse in seguito all’incidente di enormi proporzioni. Molte di loro hanno visto crollare la propria casa, come dopo un bombardamento aereo o un terremoto. Altre sono state trasferite perché la loro casa è inagibile. Per non parlare di chi già viveva in condizioni precarie nei campi di accoglienza.
I Salesiani hanno deciso di far trascorrere a diverse famiglie una settimana in montagna, nella loro seconda casa missionaria, a turno. “Lo abbiamo fatto per far riposare queste persone – racconta – soprattutto i bambini, ed allontanarli dalla tensione che ancora si respira a Beirut dal giorno dell’esplosione”, spiega don Simon. In effetti non è solo la popolazione libanese ad essere in pericolo in Libano. “La pena più grande per noi è vedere le ripercussioni sui più fragili: le famiglie di rifugiati siriani ed iracheni che abitano nelle vicinanze del porto; le persone rimaste ferite fisicamente e toccate psicologicamente dall’evento”, spiegano ancora i Salesiani. Sono uomini, donne e bambini scappati dalla guerra che minacciava i loro Paesi d’origine e si sono ritrovati in un Libano ancora più insicuro.
“Non si tratta solo di danni materiali, quanto di ripercussioni morali: ferite profonde, psichiche, inflitte ad una popolazione che comprende anche profughi siriani e iracheni, fuggiti dalle ‘loro guerre’, e che in Libano si sono ritrovati coinvolti da un altro dramma”, spiega don Zacherian. Per fortuna a Beirut e dintorni i giovani sono attivissimi e hanno voglia di stare bene, «anche se sono arrabbiati col governo e sfiduciati per quello che la politica non ha fatto in tanti anni», racconta ancora don Zakerian. È compito anche della Chiesa ridare fiducia e forza alle nuove generazioni.
(*) “Popoli e Missione”