Nella favola “Il vestito nuovo dell’imperatore”, che tutti conosciamo, ci vuole un bambino per far ammettere a tutti che il re è nudo, sebbene fosse evidente per chiunque.
Il beato Carlo Acutis non era più un bambino quando ha lasciato questo mondo per entrare nell’abbraccio del Padre: era un adolescente, apparteneva cioè a un’età ancora più critica e peculiare di quella infantile, un’età di trasformazioni e contestazioni, provocazioni e rivoluzioni interne ed esterne – e può essere lui, oggi, semplicemente con la sua esistenza circonfusa di una gloria anomala calzata di Nike, a gridare che “il re è nudo”, cioè che il linguaggio agiografico con il quale da troppo tempo idealizziamo (e distanziamo) i Santi non ha più senso, e finisce per risultare addirittura grottesco.
Eh sì, perché forse possiamo ancora riuscire a svirilizzare e ridurre a collo torto un san Luigi Gonzaga, che invece era un tipetto ironico e agguerrito, capace di prendere in giro sant’Ignazio di Loyola (che gli era affezionato come a un figlio) imitandolo nella zoppia davanti ai suoi atterriti compagni, e di dare la vita per curare i malati; lo possiamo annacquare, perché è vissuto cinquecento anni fa – ma Carlo Acutis, no: è morto nel 2006, la cosa stona.
Per carità, non stona a chi nella fede cattolica cerca semplicemente percorsi consolidati e rassicuranti: persone di una certa età che ormai si sono fatte, per via ereditaria, la loro idea di Cattolicesimo, tutto devozioncine e sentimentalismi, e quello cercano. Una religiosità che si è rivelata incapace di avvicinare al Vangelo le nuove generazioni, ma che a molti va bene perché li mantiene nell’alveo del già-noto e già-sentito – salvo poi dire che “i giovani d’oggi non credono più a niente”.
La grazia più grande che Carlo può ottenere per la Chiesa di questo tempo è la decisiva rimessa in discussione del nostro modo di comunicare l’esperienza di Dio.
Troppo spesso si confonde l’inizio con la fine, e si sbatte subito in faccia alle masse quanto, nella personale esperienza di fede di una persona (anche di un Santo), è alla fine, al culmine. Risultato: incomprensione (o ammirazione, che è lo stesso), e un’occasione bruciata.
Hai la possibilità di raccontare a degli adolescenti che uno come loro è diventato Santo, e lo descrivi a partire dall’adorazione eucaristica quotidiana e dal rosario, piuttosto che iniziare raccontando la sua storia, la sua provenienza familiare, le situazioni in cui anche loro possono riconoscersi, ecc.
Il nostro modo di esprimerci ha ormai da troppo tempo dimenticato l’andamento iniziatico, battesimale, della fede: si parte dalla problematizzazione della propria provenienza e, attraverso un cammino graduale, si arriva all’incontro con Cristo nell’Eucaristia, all’esperienza mistica.
C’è da chiedersi se nel nostro partire dalla fine, da quanto andrebbe acquisito interiormente in un cammino graduale, non ci sia l’ansia di rassicurare anzitutto noi stessi circa quanto crediamo, affermandolo con forza.
Una cosa è certa: se da un lato questo modo di dire la fede ha alienato da un genuino senso spirituale i giovani, dandogli invece come nutrimento una banale variante di filantropia sgargiante ed estroflessa, dall’altro, con questo modo di descrivere i Santi come una specie di marziani, si arriva a un vero e proprio docetismo spirituale, e cioè alla negazione dell’umano in favore di un (presunto) divino che in effetti vanifica l’Incarnazione.
Basta vedere su Google le bruttissime immagini photoshoppate di questo ragazzo, riempite di mani giunte aggiunte, raggi, aureole, cuori, ecc. Tutto, pur di negare che il divino brilla nell’umano, nell’ordinario, e che Carlo era fecondo spiritualmente proprio perché era un ragazzo normale, senza raggi né aureole, ma pieno di entusiasmo sincero (e adolescenziale) per Dio e i suoi prodigi.
Desidero raccontare un aneddoto personale circa la negazione della normalità. Quando ho mostrato le foto del beato Carlo Acutis esposto per la sua beatificazione a mia madre, lei, da donna semplice e pratica qual è, ha commentato: “Certo, chissà quella povera madre…”. Al che io, con una indignata devozione d’ufficio, ho risposto: “Ma mamma, è la madre di un beato, sarà senz’altro piena di gioia pasquale!”
Poi però mi sono fermato a pensare che mia madre parlava da madre, io da prete, e che forse ne sa più lei di come può stare una madre al rivedere il corpo del figlio morto quattordici anni prima, rispetto a me. E poi mi sono anche ricordato che nella mia chiesa c’è una statua struggente dell’Addolorata, e che nella nostra fede il dolore e il lutto hanno posto tanto quanto la gioia e la consolazione, perché fanno parte dell’umano, e che se da una vicenda umana togli un pezzo, stai entrando nel docetismo, appunto, che ha paura della carne sporca e piagata, e vuole solo uno spirito rarefatto e luminoso.
A me vedere il corpo del beato Carlo Acutis ha fatto stringere il cuore, perché in quelle esili membra vestite come uno dei tanti ragazzi dei miei gruppi parrocchiali, ho visto ciascuno di loro, e come starei se fosse successo a uno di loro, e ho visto in particolare F., morto alla stessa età di Carlo e inumato con vestiti troppo simili ai suoi, e che pena era stato vederlo lì dove un giovane non dovrebbe mai stare: in una bara.
Eppure è qui il vero segreto dei Santi: che nella loro storia ci puoi mettere la tua e quella di quelli che gli assomigliano per un motivo o per un altro, e quindi puoi sperare che anche la fine, la mèta, sarà simile. Ecco perché non dobbiamo appiattirli in forme devozionali rassicuranti, ma ricordarci sempre, e ricordare alle nuove generazioni, che i Santi sono, molto semplicemente, persone come noi, che però rispetto a noi, o almeno alla gran parte di noi, hanno creduto di più all’amore del Padre. E non è poco.
Beato Carlo Acutis, ottienici la grazia di saper esprimere in modo autentico e fecondo alle nuove generazioni l’esperienza bella e conturbante della fede.
Beato Carlo Acutis, ottienici la grazia di saperci rinnovare costantemente nello spirito, per ascoltare sapientemente il presente dove opera Dio.
Beato Carlo Acutis, prega per noi.