Uno dei maggiori intellettuali europei viventi, il non credente Edgar Morin, conclude un suo recente prezioso piccolo libro dedicato alla fraternità con questa considerazione: “la fraternità, mezzo per resistere alla crudeltà del mondo, deve diventare scopo senza smettere di essere mezzo. Lo scopo non può essere un termine, deve diventare il cammino, il nostro cammino, quello dell’avventura umana” (La fraternità, perché. Resistere alla crudeltà del mondo, Ave, 2020).
Nella sua sinteticità, la frase di Morin ci offre una chiave di lettura interessante per leggere il denso e articolato testo dell’Enciclica fratelli tutti: anche nel ragionamento di Francesco, infatti, la fraternità rappresenta sempre un fine e, al tempo stesso, la via per realizzare quel fine. La condizione propria dell’umano e la sua vocazione, un orizzonte a cui tendere e la strada da percorrere per incamminarsi verso di esso. Una forma di resistenza alla crudeltà degli uomini, e la possibilità di redenzione che è alla portata di tutti noi. Il modo con cui stare dentro i conflitti del nostro tempo e la via per poterci riconciliare spingendoci oltre essi. La condizione originaria dell’umano, ma anche un’arte difficile da apprendere, e che occorre praticare con fedeltà e sacrificio.
Fratelli tutti non presenta, dunque, una visione romantica della fraternità, ma piuttosto la proposta ben precisa e impegnativa di un cammino da intraprendere, radicata nella consapevolezza della durezza del tempo in cui viviamo ma, al tempo stesso, sempre aperta ai semi di futuro sparsi nella storia. Germogli da scoprire, custodire e far maturare ovunque essi si trovino, da qualunque religione, cultura, gruppo sociale vengano coltivati.
È nella fraternità, ci dice Francesco, che ciascuno di noi – persone, gruppi, società, nazioni – può uscire dalla solitudine dell’egoismo che ci isola, per sentirci parte della grande famiglia umana. Stando ben attenti, tuttavia, a non perderci nell’indifferenziazione di un “universalismo autoritario e astratto”, che “mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze” (n. 100). La fraternità, infatti, si nutre di diversità, perché riconosce la pluralità come ricchezza. Il mondo che ha in mente Francesco, come sappiamo, non assomiglia a una sfera, perfetta e asettica, ma a un “poliedro”, in cui “le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze” (n. 215).
Non si tratta, e le pagine dell’enciclica lo sottolineano più volte, di coltivare delle “utopie”, aspirazioni astratte senza tempo e senza luogo. Si tratta piuttosto di dare carne a un progetto che parte proprio dalla consapevolezza della sua apparente inattualità. Per quanto apparentemente controfattuale, irrealizzabile,
la fraternità si rivela come l’unica strada realmente percorribile,
“l’unica via di uscita” che possiamo imboccare “davanti a tanto dolore, a tante ferite” (n. 67).
Proprio per questo, fraternità e amicizia sociale “esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità” (n. 180). Necessitano, cioè, della politica. O meglio, della buona politica, quella “con la P maiuscola”, tante volte invocata da Francesco: “Ancora una volta invito a rivalutare la politica, che “è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”“ (ivi).
Cittadini e governanti sono messi di fronte alla responsabilità di dare vita a una politica capace di sottrarsi al giogo di un’economia orientata solo al profitto, dogmaticamente liberista, e di sfuggire alla seduzione del populismo: un modo di abitare lo spazio pubblico che semina “mancanza di speranza” e suscita “la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori”, utilizzando “il meccanismo politico di esasperare, esacerbare, polarizzare” anziché unire e pacificare (n. 15).
È una responsabilità che riguarda tutti e che necessita tanto di una riforma delle istituzioni (a partire da quelle internazionali), quanto di un “cambiamento dei cuori umani” (n. 166). Per questo, ci ricorda Francesco, è necessario sempre e nuovamente coltivare e “far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale” (n. 66). Perché, come ricorda Morin nel testo già citato, “tutto ciò che non si rigenera degenera, e questo vale anche per la fraternità”.