Di fronte alla malattia, alla sofferenza e al fine vita, si può parlare di speranza? E qual è il ruolo degli operatori sanitari, in particolare nelle strutture sanitarie cattoliche? Che cosa si aspettano le persone che vengono ricoverate in queste strutture? A questi interrogativi tenta di rispondere il documento “Una presenza per una speranza affidabile. L’identità dell’Hospice cattolico e di ispirazione cristiana”, elaborato dal Tavolo di lavoro degli hospice cattolici e di ispirazione cristiana, costituito presso l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.
Il testo, che raccoglie il lavoro iniziato nel luglio 2018 dal Tavolo e vuole indicare una prospettiva di lavoro per il futuro, in dialogo con la cultura e la società contemporanee, è stato presentato oggi sulla piattaforma online del suddetto Ufficio Cei. Di “sintesi di questa ricerca identitaria” e di “strumento di progettualità condivisa, nuovo punto di partenza per un cammino voluto e costruito di convergenza ecclesiale e professionale”, parla il direttore dell’Ufficio don Massimo Angelelli. Pensato per chi opera nelle strutture degli hospice cattolici e di ispirazione cristiana, il testo si rivolge anche agli altri operatori sanitari che potranno “trovare, o ritrovare, le motivazioni più profonde che li spingono a dedicarsi secondo scienza e coscienza all’accompagnamento del malato morente, nelle diverse fasi del suo cammino”.
“Per noi
l’hospice è un luogo che apre alla speranza”
perché mai come in prossimità della morte occorre celebrare la vita, rispettarla, proteggerla e assisterla, si legge nel documento. E la prima cura accanto al morente è “una presenza amorevole” fatta di “disponibilità, attenzione, comprensione, condivisione, competenza”, segno di “dedizione e amore cristiano per il prossimo”. Con questo atteggiamento di cura, “sull’angoscia può prevalere la speranza”. Quella dell’operatore sanitario diventa allora “una testimonianza di fede e di speranza in Cristo che dischiude nuovi orizzonti di senso, di risurrezione e di vita”.
La vocazione dell’hospice è assicurare un percorso completo di cure palliative in risposta ai bisogni fisici, psicologici, sociali, spirituali del morente, e una presenza amorevole anche intorno ai suoi familiari. E poiché la malattia spinge il malato – talvolta anche non credente, ateo o agnostico – ad interrogarsi su ciò che sta vivendo, possono nascere in lui domande profonde sul senso della vita e della morte stessa. “Può essere questo
il tempo della ricerca della presenza di Dio”,
spiega il documento. Pertanto, “dare voce a questi interrogativi e accompagnare la persona in questo difficile cammino” è compito fondamentale di chi “opera in hospice e in cure palliative in ambito cattolico. È questa la responsabilità prioritaria del cappellano o dell’assistente spirituale adeguatamente formato”, ma “ciascun operatore è chiamato ad essere portatore di quella speranza che solo la fede e l’amore possono muovere”.
Accanto ai bisogni spirituali, spesso si affiancano quelli più strettamente religiosi; per questo ogni hospice cattolico e di ispirazione cristiana è chiamato ad offrire alla persona la possibilità di preghiera, personale e comunitaria, momento privilegiato per incontrare Dio e rapportarsi a Lui. “Un fedele cattolico dovrebbe sentirsi particolarmente a casa nelle nostre strutture”, avverte il documento sottolineando l’importanza di garantire la celebrazione dei sacramenti: riconciliazione, eucaristia e unzione degli infermi, “segno della presenza salvifica di Dio e luce e conforto per il malato”.
Ma nel contesto multietnico e multireligioso di oggi, ogni persona ha il diritto di essere accolta nel rispetto della propria fede: occorre pertanto garantire al morente la possibilità di avere servizi religiosi rispettosi della propria sfera spirituale e culturale, anche dopo il decesso.
Accogliere il malato significa inoltre prendersi cura anche della sua famiglia, ascoltandola, coinvolgendola nel percorso di cura e sostenendola anche nel lutto dopo il decesso del proprio caro.
Concetto chiave nel documento è ridare dignità alla persona affinché il tempo che rimane da vivere non sia un’attesa della morte, bensì un tempo da colmare di senso e di vita.
Anzitutto alleviandone le sofferenze, quel “dolore globale” che tocca il malato nel corpo, nella psiche, nell’identità e nello spirito, con le cure palliative. E poi con percorsi di perdono e riconciliazione per sanare le ferite relazionali. L’hospice cattolico deve inoltre essere aperto alle comunità cristiane locali presenti sul territorio ed in cui è inserito, in grado di accogliere e valorizzare il volontariato e capace di prendersi cura di quelli che curano, giacché il contatto quotidiano con il dolore “è un difficile peso per gli operatori”.
Infine, né accanimento terapeutico, né morte procurata, suicidio assistito o eutanasia perché l’hospice “tutela la sacralità della vita” in ogni sua fase. E per questo tutela anche la libertà di coscienza dei suoi operatori.