Oggi, 4 agosto, si fa memoria di uno dei pochissimi parroci canonizzati dalla Chiesa cattolica: san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars. Non che nella Chiesa manchino sacerdoti santi: di quelli ce n’è un esercito! Ma è interessante (e inquietante) che siano molto pochi quelli che come ministero abbiano svolto la cura d’anime in una parrocchia.
Questo è un dato che, come parroco, mi interroga e mi sprona: in cosa può stimolarmi alla santità il Curato d’Ars?
C’è un aspetto della sua vita che in particolare mi colpisce, mi provoca e mi attrae: la sua perenne mancanza di riposo. Va detto che il diavolo ci metteva la coda. Il “grappino”, come lo chiamava il Curato d’Ars per prenderlo esorcisticamente in giro, non voleva che egli dormisse quelle poche ore che pure provava ad adagiarsi sul letto e lo teneva sveglio facendo volare il suo giaciglio da una parte all’altra della stanza. Già di suo san Giovanni Maria rinunciava facilmente al sonno, perché per colmare le lacune della sua cultura passava le ore notturne a studiare e a preparare le omelie, per poi mettersi alle prime luci dell’alba in confessionale e da lì svolgere tutte le sue incombenze quotidiane, che per lo più consistevano nel confessare, confessare, confessare fino a notte fonda… e poi di nuovo lo studio, e così via. Aveva poco tempo per riposarsi: e quel poco tempo il diavolo glielo portava via. Ecco perché fisicamente il Curato d’Ars sembrava più vecchio di quanto fosse in realtà, dall’aria perennemente stropicciata ed emaciata, tanto da ridursi a bersaglio di volgari prese in giro da parte di alcuni suoi parrocchiani malevoli sui presunti motivi di quell’aria perennemente disfatta.
Penso a lui, poi penso a quella brava gente che mi dice incontrandomi “ti vedo stanco” e sorrido. Sicuramente il riposo, il sonno e la distensione sono importanti per un sacerdote, per focalizzarsi e adempiere bene ai propri impegni (altrimenti il diavolo non avrebbe provato a rubarglielo il sonno, al Curato d’Ars); se però un prete vuole essere incisivo e davvero fecondo, credo che debba archiviare definitivamente l’idea di difendere la propria routine, il proprio equilibrio, i propri riposini, o arriverà inevitabilmente il giorno in cui sarà tentato di difendere tutto questo anche dalla gente per la quale aveva accettato di dare la vita.
Noi preti corriamo il rischio di iniziare bene e finire male: di essere pronti, all’inizio del ministero, a offrirci in sacrificio uniti a Cristo, per poi ridurci, cammin facendo, in seguito magari a delusioni, fatiche e amarezze, a piccoli borghesi dagli orari d’ufficio.
Eppure non ne vale la pena:
non vale la pena essere preti, se poi ci dobbiamo conservare intatti. Meglio stropicciati e fecondi, che sterili dal colorito sano.
E poi, diciamocelo: nessuno ha mai lasciato il sacerdozio per la stanchezza dovuta al lavoro nella vigna di Dio; semmai ben altre stanchezze, più cupe e profonde, hanno irretito prima il cuore di chi poi anche nel ministero non ha trovato più gusto, ma solo fatica.
Il Curato d’Ars è morto di sfinimento il 4 ottobre 1859, dopo avere dato tutto se stesso alla gente a cui era stato mandato: dando tutto di sé, ha salvato tutto nell’amore. L’accettazione della sua fatica per amore, della sua insonnia per il Regno, è l’aspetto che di lui più mi attrae e mi fa sperare che, da parroco, io possa imitarlo almeno un po’, per partecipare con lui alla ricompensa destinata agli operai del Vangelo.