Un’occupazione degna e sostenibile come base per la costruzione di una società più giusta. Mons. Filippo Santoro, presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro e arcivescovo della diocesi di Taranto, non ha dubbi a riguardo: è da questo che bisogna ripartire.
La Chiesa ha da sempre considerato il lavoro essenziale per lo sviluppo dell’essere umano ma quando si può definire davvero degno?
Il lavoro è degno perché ogni persona ha una dignità all’origine del suo essere. Nella Genesi si parla dell’essere umano come immagine e somiglianza di Dio. Questa dignità si esprime nel lavoro, che permette di far venire fuori le proprie ricchezze personali, di intelligenza, di azione. Così, per mezzo del lavoro, uomo e donna portano avanti l’opera creativa di Dio. Quindi un lavoro è degno quando serve a mantenere la propria persona, la famiglia e contribuisce alla costruzione di una società più giusta. Di questi tempi, la prima criticità, particolarmente al Sud, è trovare lavoro e con la pandemia questa difficoltà si è aggravata. Perciò in queste circostanze è lavoro anche cercare lavoro e non starsene immobili. È persino più consigliabile cominciare a lavorare gratis, rispetto a cedere all’ozio di chi si piange addosso e dice che non c’è nulla da fare. Il mettersi all’opera è essenziale per la nostra vita.
Lei aveva già anticipato, dal suo osservatorio, che i problemi sociali legati al lavoro, in questo periodo post lockdown, si sarebbero sentiti maggiormente al Sud. Oggi conferma questa tesi?
Certamente. La gravità della situazione al Sud è venuta fuori in tutta la sua drammaticità quando durante il blocco delle attività, si è fermato pure il lavoro nero. È emerso così quanto fosse diffuso, perché la Caritas, il Banco alimentare, le parrocchie, hanno dovuto dare sostegno immediato a tutti questi altri poveri, oltre alla sacca dei poveri tradizionali, normalmente sostenuti. La situazione al momento rimane grave ma l’aspetto nuovo è che dall’Europa arriverà una pioggia di miliardi. Questo è il momento di usare aiuti europei e statali con molta attenzione per un rilancio del lavoro nel Mezzogiorno che crei effettivo valore economico e sociale.
Mancanza di occupazione e tutele spesso inesistenti anche per chi un’occupazione ce l’ha. Sembra che più che datori, ci siano donatori di lavoro. Come se lavorare non fosse più un diritto ma un beneficio accordato a pochi fortunati. Come si costruisce una classe imprenditoriale che consideri il lavoro un valore?
Serve una conversione culturale, come dice la Laudato Si’. L’obiettivo imprenditoriale non può essere il mero profitto a tutti i costi ma costruire qualcosa di positivo per la società, compatibile con il rispetto della vita, dell’ambiente circostante, della comunità in cui si vive. Bisogna tornare ad educare al senso vero dell’occupazione, come qualcosa di positivo, gratificante, necessario per la società, per la vita dell’altro, oltre che per la propria. E poi deve essere rafforzata la funzione educativa della scuola. Non basta che promuova formazione solamente tecnica. Serve formare ad una cultura del lavoro.
Con gli altri vescovi che compongono la commissione che lei presiede, avete avuto modo di confrontarvi sulle situazioni dei reciproci territori, in questo tempo così complesso? Servono risposte nazionali o territoriali?
Con i vescovi abbiamo discusso e il nostro pensiero è contenuto nel messaggio scritto in occasione del Primo maggio, intitolato “Il lavoro in un’economia sostenibile” in cui ribadiamo che c’è bisogno “di un’economia che metta al centro la persona, la dignità del lavoratore e sappia mettersi in sintonia con l’ambiente naturale senza violentarlo, nell’ottica di un’ecologia integrale”. Le risposte devono arrivare su tutti i piani, nazionali e territoriali. Questo è un momento privilegiato, in cui la pandemia ci ha provocato profondamente e fatto comprendere la necessità di una conversione culturale e un cambiamento degli stili di vita. Stiamo approfondendo la sfida e i modi in cui affrontarla, soprattutto in vista della prossima Settimana Sociale che si terrà a Taranto.
A proposito di Taranto. La situazione dell’ex Ilva non sembra che si risolverà a breve e continua ad esserci una dicotomia insopportabile tra dignità del lavoro e rispetto della salute, della vita e dell’ambiente. Che idea se ne è fatto?
Ci sono dei paletti ormai imprescindibili che vanno messi e la sostenibilità ambientale è il primo. Con il green deal saremmo anche in linea con l’Europa. A livello di sviluppo del piano industriale invece bisogna che si sciolga il dubbio che Arcelor Mittal alimenta sulla volontà di restare. L’entrata dello Stato, con Invitalia, incoraggia verso una prospettiva più positiva. Se entrasse nella cordata anche qualche altro partner italiano, ci sarebbero ulteriori garanzie e controllo. Serve un impegno corale, dando priorità alla cura della casa comune.
Torniamo alla Settimana Sociale 2021. Come la state immaginando?
Il tema centrale sarà il rapporto tra lavoro ed ambiente. Poi c’è la sfida della sostenibilità sanitaria, infine quella della sostenibilità digitale. Ne abbiamo avuto prova in questi mesi: il digitale è sempre una grande possibilità ma non deve accrescere le disparità esistenti. Diventa importantissimo combattere le disuguaglianze di accesso alla Rete. La banda larga deve essere diffusa ovunque.
A proprio di digitale, questi sono stati i mesi in cui l’Italia ha scoperto lo smart working. Un salto di qualità?
È una modalità che può facilitare il lavoro. Evitando gli spostamenti diminuisce l’inquinamento ed aumenta il tempo da dedicare alla famiglia ma ci sono anche altre facce della medaglia. Questo sarà un altro aspetto su cui puntare nella Settimana Sociale: il diritto alla disconnessione. Non dobbiamo rischiare che lo smart working diventi una modalità per far lavorare il dipendente 24 ore al giorno o si entra in un vortice che è peggio di prima, perché cattura, non lascia tempo per vivere, per coltivare relazioni sane.
È ormai provato dalla scienza che il virus è frutto di una dissennata deforestazione, degli allevamenti intensivi, di una natura che maltrattiamo. Ora che abbiamo ripreso lentamente a vivere, ritiene che impareremo qualcosa da tutto questo?
O impariamo o ci affossiamo completamente.
È tempo di esercitare la sobrietà
e lo dico partendo dalle parrocchie, dai sacerdoti, per arrivare ai giovani. Occorre imparare ad accontentarsi del necessario, cambiare rotta e stili di vita. La pandemia ci ha fatto scoprire come siamo fragili e dalla fragilità nasce la domanda sul senso, sul valore della nostra vita e su come preservarlo. Non è più pensabile assistere inermi alla distruzione dell’Amazzonia. Dobbiamo tornare a costruire rapporti nuovi, senza l’ansia di accumulare beni di consumo.