Unità e profezia. Sono le parole chiave che Papa Francesco ha utilizzato oggi nella sua riflessione per la Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. In una Basilica di San Pietro ancora sottoposta ai vincoli imposti dal Coronavirus, Francesco ha celebrato, con le stesse modalità usate per il Triduo Pasquale e il tempo di Pasqua, la Messa in cui si ricordano i due Apostoli “romani” che secondo la tradizione furono martirizzati a Roma: Pietro ai piedi del Colle Vaticano, Paolo nella zona delle Tre Fontane. “Celebriamo insieme due figure molto diverse – ha esordito il Papa nella sua omelia –, Pietro era un pescatore, Paolo un colto fariseo che insegnava nelle sinagoghe, e quando le loro strade si incrociarono, discussero in modo animato. Erano insomma due persone tra le più differenti, ma si sentivano fratelli, come in una famiglia unita”. E qui il primo affondo di Francesco: unità ! Un’unità non costruita però su presupposti umani ma innanzitutto sulla parola del Signore che ”non ci ha comandato di piacerci, ma di amarci – ha detto – perché è Lui che ci unisce, senza uniformarci”. E insieme alla Parola la preghiera, “perché dalla preghiera – ha aggiunto – viene un’unità più forte di qualsiasi minaccia. L’unità è un principio che si attiva con la preghiera, che permette allo Spirito Santo di intervenire, di aprire alla speranza, di accorciare le distanze, di tenerci insieme nelle difficoltà”. Una preghiera incessante, dunque, per tutti. In particolare per chi ci governa. “Ma questo governante è …, e i qualificativi sono tanti e io non li dirò perché non è il luogo né il posto”, ha sottolineato parlando a braccio, ma pregare per loro “è un compito che il Signore ci affida. Lo facciamo? Oppure parliamo, insultiamo, e basta?”. Nelle parole del Papa poi, ancora una volta la condanna di un atteggiamento inutile e dannoso e più volte da lui stigmatizzato: la lamentela. Nella prima comunità cristiana “nessuno si lamenta del male, del mondo, della società. “Tempo sprecato e inutile per i cristiani quello passato a lamentarsi di quello che non va – ha proseguito – perché
le lamentele – ha ribadito – non cambiano nulla. Quei cristiani non incolpavano Pietro, non sparlavano di lui, ma pregavano per lui. Non parlavano alle spalle, ma a Dio”.
Da qui, l’invito a custodire l’unità mormorando di meno e pregando di più, a ricordarci di coloro che ci sono stati affidati, e in particolare di “quelli che non la pensano come noi, di chi ci ha chiuso la porta in faccia, di chi fatichiamo a perdonare. Solo la preghiera scioglie le catene, spiana la via all’unità”. E allora, come per Pietro in carcere, anche per noi “tante porte che ci separano si aprirebbero, tante catene che paralizzano cadrebbero”. Francesco ha quindi ricordato il rito della benedizione dei palli che secondo la tradizione, vengono conferiti al Decano del Collegio cardinalizio e agli Arcivescovi Metropoliti nominati nell’ultimo anno. Per l’Italia si tratta degli arcivescovi di Cagliari, monsignor Giuseppe Baturi, e del vescovo eletto di Genova, padre Marco Tasca, che sarà consacrato vescovo l’11 luglio prossimo quando farà l’ingresso in città ricevendo il testimone dal cardinale Angelo Bagnasco che ha guidato la diocesi negli ultimi 14 anni. Le restrizioni imposte dal Coronavirus, poi, oltre a vietare una più vasta partecipazione di fedeli, hanno impedito alla delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli di partecipare alla celebrazione. È la prima volta infatti, che lo scambio di visite delle delegazioni tra il Patriarcato ecumenico e la Santa Sede si interrompe. Un’usanza istituita dopo lo storico incontro del 1964 tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora, a Gerusalemme, e alla successiva remissione delle reciproche scomuniche. “Una bella tradizione – ha detto Francesco – Pietro e Andrea erano fratelli e noi, quando possibile, ci scambiamo visite fraterne nelle rispettive festività: non tanto per gentilezza, ma per camminare insieme verso la meta che il Signore ci indica: la piena unità”. Un pensiero questo che ha preceduto il secondo affondo del Papa: la profezia!
Tutto nasce dalla provocazione di Gesù ai due apostoli. Da quel “ma tu chi dici che io sia” rivolto a Pietro, a quel “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”.
Due provocazioni diverse, che avvengono in contesti diversi, ma che al primo fa capire che “al Signore non interessano le opinioni generali, ma la scelta personale di seguirlo, mentre al secondo fa “cadere la sua presunzione di uomo religioso e per bene, così da farlo diventare Paolo, che significa ‘piccolo’”. Due provocazioni sulle quali però si fonda la profezia che li accompagnerà per sempre. Pietro sarà la “pietra” sulla quale Gesù edificherà la sua Sua Chiesa, mentre Paolo sarà trasformato in quello “‘strumento’ che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni”. Entrambi hanno accolto il Vangelo, e con esso quella provocazione che ribalta le nostre certezze,quel desiderio tutto umano “gestire la propria tranquillità, di tenere tutto sotto controllo”. Il mondo e la Chiesa, oggi, hanno bisogno di questa profezia, “non di parolai che promettono l’impossibile, ma di testimonianze che il Vangelo è possibile”. E poi l’appello finale. “Oggi – ha ricordato con forza – non servono manifestazioni miracolose, ma vite che manifestano il miracolo dell’amore di Dio. Non potenza, ma coerenza. Non parole, ma preghiera. Non proclami, ma servizio. Non teoria, ma testimonianza. Non abbiamo bisogno di essere ricchi, ma di amare i poveri; non di guadagnare per noi, ma di spenderci per gli altri; non del consenso del mondo, ma della gioia per il mondo che verrà; non di progetti pastorali efficienti, ma di pastori che offrono la vita: di innamorati di Dio”. Una profezia vivente che “cambia la storia”. E se c’è “sempre chi distrugge l’unità e chi spegne la profezia – ha concluso – il Signore crede in noi e chiede a te: “Vuoi essere costruttore di unità? Vuoi essere profeta del mio cielo sulla terra?”. Lasciamoci provocare da Gesù e troviamo il coraggio di dirgli: “Sì, lo voglio!”.