“Si può parlare di bellezza pastorale? O meglio esiste un’‘estetica’ dell’agire della Chiesa? Interrogarsi sul senso estetico della religione non è un’operazione concettuale nuova ma riemerge in modo prepotente nei giorni dell’emergenza coronavirus”, in conseguenza dell’esplosione della “religione on line”, con messe, videocatechesi, quaresimali, messaggi di vescovi, parroci e laici mediante il web. Su questo fenomeno si sta interrogando Massimiliano Padula, docente di Scienze della comunicazione sociale alla Pontificia Università Lateranense e presidente del Copercom (Coordinamento delle associazioni per la comunicazione). Lo stesso Padula ha appena terminato un saggio, intitolato “Preti e digitale, questione di bellezza”, che sarà pubblicato martedì 14 aprile su http://segnoweb.azionecattolica.it/. In questa intervista, Padula ne anticipa alcuni elementi essenziali.
Uno dei fenomeni maggiormente diffusi in questo periodo di emergenza è il proliferare della presenza di sacerdoti in rete. I risultati, da un punto di vista comunicativo ed “estetico” mostrano alti e bassi. Come possiamo inquadrare socialmente questo processo?
Nel mio studio parto da una premessa di scenario spiegando come la reclusione forzata stia dando uno scossone gigantesco all’umanità. La criticità sanitaria non solo destabilizza certezze acquisite da generazioni, ma riprogramma inevitabilmente i formati dell’esistenza. A partire da due macro categorie sociali come lo spazio e il tempo. Se il primo si riduce per la maggior parte delle persone a quello domestico, il secondo si riprogramma annullando i tradizionali tempi sociali a cui si era abituati. Isolamenti e quarantene obbligano, quindi, l’individuo a vivere in un “tempo unico sospeso”, a riprogrammare la propria agenda ripensando pratiche usuali come, ad esempio, quelle ecclesiali.Ecco perché i pastori stanno trasferendo la propria missione negli spazi digitali offendo celebrazioni, catechesi e momenti di preghiera.
Può farci qualche esempio di ciò che sta avvenendo?
Questa trasposizione avviene attraverso dirette social (Facebook, Instagram), messaggi istantanei (WhatsApp, Telegram) o utilizzando una delle tante piattaforme di videoconferenza a disposizione. A queste esperienze pastorali, strutturate e vissute online, si aggiunge la condivisione, sempre tramite web, di celebrazioni improvvisate sui terrazzi delle canoniche o di preghiere recitate in una macchina dal volenteroso prete che gira col megafono per le strade cittadine. Al di là delle ragioni che muovono scelte di questo tipo (la principale è certamente la necessità di farsi presenti spiritualmente), una delle questioni che merita un approfondimento non riguarda la nobile intenzione ma la qualità – estetica e pastorale – della messa in scena di queste prassi.
Infatti non sempre questa presenza è stilisticamente perfetta. Si nota sempre la buona volontà, ma spesso le dirette o le registrazioni sono prodotti artigianali. Che ne pensa?
È vero. In molti casi, le narrazioni proposte risultano improvvisate e riflettono la radice amatoriale delle loro pratiche ovvero rientrano in quella che il sociologo francese Patrice Flichy chiama la “sacralizzazione dell’amatore” determinata dalla diffusione, dalla disponibilità e dal facile utilizzo delle tecnologie digitali. Flichy spiega come i media online hanno permesso a un gran numero di individui di vivere più intensamente le loro “passioni ordinarie” contribuendo notevolmente all’ascesa dei dilettanti sulle scene culturali, politiche e scientifiche. Nel nostro caso la dimensione dilettantistica non è riferita al ruolo intrinseco del prete, che non è certamente né un professionista né un hobbista della religione, ma si configura come Alter Christus, come un “chiamato da Dio” per diffondere il suo Verbo. E lo fa – scriveva Giovanni Paolo II – coniugando “la permanente verità del ministero presbiterale con le istanze e le caratteristiche dell’oggi” (esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992).
Potremmo dire che sta emergendo una sorta di “pastorale dal basso”?
Certamente, così come è evidente che le conseguenze in termini di resa estetica sono a volte discutibili. Esempi di tali storture sono le inquadrature traballanti, le riprese fuori campo, i primi piani esagerati. Emblematico è il caso del sacerdote che attiva lo streaming della messa innescando inconsapevolmente i filtri dello smartphone e ritrovandosi, suo malgrado, in testa un casco da robot e il cappello e gli occhiali neri dei Blues Brothers. Lo scenario descritto rimanda, inoltre, a un concetto archetipico della cultura digitale, quello di “grassroots”, ovvero di una produzione mediale dal carattere spontaneo, autoprodotta da non professionisti ma in grado di creare larga partecipazione.
L’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana ha diffuso di recente il documento “Celebrare la messa in Tv o in streaming”, un vademecum rivolto a tutti quei sacerdoti, religiosi e religiose e diaconi che si stanno cimentando nelle celebrazioni in rete. Uno strumento molto utile in questa fase…
I suggerimenti della nota Cei sono un prontuario fondamentale per gestire tecnicamente questo “tsunami spirituale” che ha travolto gli account social di tanti fedeli orfani delle celebrazioni in presenza dell’assemblea dei fedeli. Le tre parti di cui si compone (“indicazioni pratiche”, “attenzioni di regia”, “glossario social”) hanno un doppio merito: quello di indicare piste di lavoro e quello di stimolare alla formazione in questo ambito. La speranza è che i destinatari non recepiscano queste indicazioni esclusivamente come un tutorial, ma che lo “usino” come un incentivo a conoscere, interpretare e interiorizzare i codici identitari della cultura digitale. Questo vale sia per coloro che hanno battuto per la prima volta – e talvolta con conseguenze tragicomiche – i territori del web sia per coloro che ne sono esperti e realizzano prodotti mediali apparentemente perfetti, ma a volte privi di spessore pastorale.
Infine, quale dovrebbe essere il valore aggiunto di una pastorale che possiamo definire “digitale”?
Una prassi religiosa realizzata in Rete, oltre a fare opportuna attenzione ai particolari tecnico-formali, dovrebbe riflettere quella che Balthasar chiamava la “bellezza di Dio”; deve, cioè, superare la logica di una pastorale “della” tecnica comunicativa e proiettarsi nella prospettiva di una pastorale “nella” comunicazione tecnologica (mediata), che metta al centro la bellezza del dato di fede e riesca a incarnarla nel contesto contemporaneo, caratterizzato appunto dalla presenza e dallo sviluppo dei media digitali, dai fattori della convergenza e dell’interattività.