Ieri abbiamo potuto rinvenire alcuni degli importanti interrogativi che la crisi del coronavirus rivolge alla società civile; a maggior ragione questa situazione interpella la Chiesa, che per sua natura è chiamata all’ascolto obbedienziale di Dio che parla attraverso gli accadimenti, e deve (e può) rispondere sapienzialmente all’enigma del male guardandolo con occhi pasquali, così da far fare all’umanità un passo avanti in più verso il Regno.
Anche in questo caso le domande sorte sono in ordine sparso, né pretendono di essere tutte le domande che i drammi di questi giorni sottopongono a pastori e fedeli: sono quelle che il sottoscritto si è visto più volte sbattere in faccia dalla vita strana di queste settimane, scoprendo poi di non essere stato il solo prete a porsele.
Confessione al telefono o in videoconferenza: perché no?
Tale questione, che pertiene alla teologia sacramentale, non è stata chiusa né definita; d’altronde, è solo oggi (e non certo cinqua-sessant’anni fa) che si sta comprendendo il significato reale, il vero potenziale, della comunicazione a distanza. Il riferimento all’invalidità per difetto di presenza non regge, perché mentre una lettera scritta non risponde alla natura della comunicazione diretta e auricolare tra due persone, una telefonata o una videoconferenza sì – cose queste che, ovviamente, non si potevano immaginare nel XVI secolo. Né la questione è paragonabile alla burla dell’app per confessarsi senza il prete, vera e propria bufala girata in rete e nata dall’equivoco su un’applicazione ideata per prepararsi alla Confessione.
In realtà non esistono argomenti decisivi contro la validità di una Confessione attraverso un mezzo telematico, tramite il quale sia il confessore che il penitente potrebbero comunicare vedendosi, o almeno sentendosi, in tempo reale. Non si parli di segretezza, per favore, soprattutto se pensiamo a certi confessionali che nelle nostre chiese semivuote fanno quasi da cassa di risonanza!
Ma poi, pensiamoci bene: se uno mi fa un torto, e mi telefona afflitto chiedendomi perdono, e io gli rivolgo parole di misericordia, lì succede qualcosa di reale o no? E Dio, che è puro e infinto Spirito, dovrebbe invece essere vincolato a uno spazio fisico determinato?
E i sacerdoti che alla GMG concelebrano con il Papa da centinaia di metri di distanza, se non chilometri, quando dicono “Questo è il mio Corpo” consacrano validamente?
Ogni Sacramento richiede livelli diversi di concretezza fenomenica: altro è un Sacramento che richieda il venire immersi nell’acqua, il venire unti, o il mangiare, altro quello che richiede solo l’ascolto e la parola.
Lungi dal voler optare categoricamente per una tesi, e rimanendo fedeli all’attuale divieto, speriamo tuttavia che questa sottolineatura che la Chiesa stessa sta facendo dei benefici (almeno larvati) della partecipazione in streaming alle funzioni durante la quarantena riapra la questione – tanti infermi sicuramente ne gioverebbero!
Quale funzione effettiva di vicinanza e consolazione possono esercitare le parrocchie (e i parroci) in questa crisi?
Il principio di sussidiarietà, per il quale se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l’azione, è alla base dello Stato di diritto, ed è un’invenzione della Chiesa Cattolica, sancito dalla Rerum novarum di Leone XIII.
Da un lato è senz’altro molto positivo vedere una nuova generazione di Vescovi e Cardinali in prima linea, a perenne disposizione per celebrazioni in streaming, predicazioni in rete, Messe, ecc. Questo mostra e conferma una Chiesa in uscita che mantiene uno stile vitale e comunicativo. Speriamo solo che questo imponente dispiegamento di media da parte della gerarchia non scoraggi, ma anzi stimoli, un contributo più specifico, locale, incarnato e “artigianale” da parte delle parrocchie.
In qualche modo anche “in streaming” torna la questione decisiva del modo migliore in cui i diversi gradi della gerarchia possano e debbano interagire per custodire la comunione e la specificità di funzione.
La formazione spirituale dei fedeli laici va di pari passo con la loro formazione sacramentale?
Il fanatismo espresso da non pochi cattolici, di cui alcuni anche piuttosto in vista, che pretenderebbero in piena pandemia di fare come se nulla fosse cambiato, e vorrebbero partecipare alla Messa e ricevere i Sacramenti senza limitazioni, solo in apparenza è fede. Il vero credente obbedisce alla vita, e a Dio tramite la vita, e sa accogliere nella propria esistenza il deserto tanto quanto la Terra promessa, il Sabato santo tanto quanto la Domenica di Pasqua – perché sa che in effetti è attraversando il deserto che si arriva alla Terra promessa, e che è passando per il Sabato che si arriva alla Domenica.
In realtà queste pretese, piene di enfatico autocompiacimento, fanno sospettare che ci siano molti cattolici che, se non “fanno” atti religiosi in chiesa, messi a tu per tu con Dio dentro casa loro, molto semplicemente non saprebbero cosa dirGli; persone magari di buone intenzioni, ma del tutto ignare di vita interiore, discernimento, contatto con la Parola, esami di coscienza, ecc. cioè di tutto quello che dovrebbe dare intelligenza autenticamente spirituale della liturgia, che senza di esse può facilmente ridursi a cerimonia esteriore che non coinvolge (se non esteticamente) né compromette.
Questa crisi sta mettendo in luce la necessità urgente di una riformulazione della proposta formativa offerta ai fedeli, che non si limiti alla sacramentalizzazione, ma consegni veri e seri strumenti di vita spirituale e di discernimento sin dalla più giovane età, così da radicare nei cristiani la consapevolezza del loro sacerdozio universale derivante dal Battesimo.
Queste sono alcune delle domande più urgenti che questa crisi piena di stimoli spirituali e pastorali ha messo nel cuore di tanti di noi poveri preti, che in questi giorni del coronavirus stiamo lottando per essere “frati Cristoforo” e non “don Abbondi”.