Da ieri stiamo provando a vedere che cosa sta succedendo, che cosa può succedere di bello nelle famiglie in questo periodo di coabitazione costante forzata. “Fare di necessità virtù” è un po’ riduttivo: c’è qui, piuttosto, la possibilità di riscattare una situazione molto pesante facendone il principio di un modo nuovo di stare insieme, e di guardare alla vita.
Vorrei partire da quanto una giovane madre mi diceva proprio l’altro giorno, parlandomi della quarantena del suo nucleo familiare. Lei e il marito sono genitori di una bimba nata pochi mesi fa, ed entrambi lavorano nell’esercito. La routine implacabile dei turni di servizio è sospesa, e lei si ritrova a svolgere da casa il lavoro che prima faceva in ufficio; mi ha confidato sorpresa come ora le sia possibile vedere la figlia “nel dettaglio” (ha usato proprio questa espressione): i dettagli della sua crescita, del suo progressivo affacciarsi al mondo; i dettagli di come mangia, e di come dorme, e di come man mano prende coscienza del mondo. Non che prima non fosse attenta o non la osservasse, si capisce, ma ora le è data la possibilità di una continuità ininterrotta dell’esperienza di maternità, in cui accompagnare senza interruzione questa nuova piccola vita mentre sboccia e si evolve.
Mi fa strano scrivere queste parole… l’esperienza ovvia, quasi automatica, che in epoche precedenti toccava in sorte a ogni madre, oggi va riconquistata mediante accadimenti che costringono i genitori a ridestarsi dall’automatismo del tram tram, e aprono loro un mondo: il mondo dei dettagli dei loro figli.
Il ricordo passa da questa giovane madre sorpresa a un padre di mezza età. Faceva parte di un gruppo di adulti che guidai in un ritiro sui novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso), e quest’uomo, buono e serio, quando ciascuno fu chiamato a condividere con gli altri che forma, che metafora profonda, immaginava per sé della Vita eterna, scoppiando a piangere disse: “Io immagino me che potrò vedere tutte le recite dei miei figli che ho perso a causa del lavoro, mentre crescevano”.
La vita è l’insieme degli atti che la compongono, come una costellazione:
troppe cose di essa si spengono nel buco nero di un dovere che, visto da vicino, non sempre significa granché, se progressivamente ci sgancia dalle relazioni per cui vale la pena vivere – e non è un caso che uno dei cinque rimpianti più comuni a tutti i moribondi, a detta di Bronnie Ware, un’infermiera dedita alle cure palliative che li ha raccolti negli anni del suo servizio, sia quello di avere lavorato troppo, perdendosi ampi capitoli della propria storia familiare, della vita dei propri affetti.
Questa pandemia che ci ha fermati e rinchiusi ci sta dando lezioni severe e importanti sul valore che dobbiamo riscoprire nella frequentazione dei nostri cari, troppo spesso incrociati di sfuggita nella vita ordinaria: la lezione di un figlio che ora puoi vedere nel dettaglio della sua giornata di bambino, anziché delegarlo alle agenzie suppletive di sempre (scuola, sport, parrocchia, ecc.); la lezione di un anziano che muore senza che tu possa nemmeno salutarlo, e che magari non passavi a salutare troppo spesso quando potevi.
Lezioni sull’inizio e sulla fine, per non parlare di quelle che riguardano tutto ciò che ci passa in mezzo.
Speriamo di imparare qualcosa.