In queste settimane stiamo cercando di guardare alla crisi in cui versiamo con uno sguardo pasquale, uno sguardo capace di prendere il negativo e di portarlo oltre, riempirlo della luce della speranza che viene dell’amore di Dio per noi. È quanto il Vangelo della quarta domenica di Quaresima, appena trascorsa, ci invita a fare: aprire gli occhi a partire dall’amore di Dio per noi, per cercare negli eventi che ci troviamo a vivere non le colpe e le cause, ma il fine, per arrivare al fine ultimo, che è la gloria di Dio, la vittoria del suo amore e della sua bellezza nel mondo.
Ecco perché, senza voler minimamente dimenticare che questa in cui ci troviamo è una brutta storia, da cristiani possiamo vedere i fiori che spuntano dal letame – d’altronde, la “letizia” è la capacità appunto di vedere del letame (la radice “let-”è la stessa) la fecondità piuttosto che lo schifo, no?
Tra i tanti fiori che in questi giorni stiamo raccogliendo, non possiamo ignorare le bellissime alchimie di vita che stanno avvenendo nelle famiglie italiane, dopo già un paio di settimane di quarantena.
Ci soffermeremo qualche giorno sulla situazione della famiglia in questi giorni, perché vale la pena cogliere le varie sfaccettature di una situazione anomala, eppure, se ci si pensa, così teoricamente naturale, come il fatto dei membri di una famiglia che stanno sempre insieme.
E invece no.
I genitori odierni, per lo più costretti abitualmente a situazioni lavorative totalizzanti che non risparmiano più da tempo nemmeno le mamme, generalmente stanno scoprendo di non essere abituati a stare sempre con i propri figli. Sic et simpliciter. Questa scoperta non deve dare la stura a critiche e invettive, quanto piuttosto spingere a domande concrete e intelligenti sulla natura del lavoro oggi, e della progettualità di una famiglia, e di come le due cose (lavoro e famiglia) stanno insieme, o dovrebbero stare insieme.
Possibile che ci voglia una pandemia per far sperimentare ai bambini una presenza continuativa nella ferialità dei loro padri?
Lo smart working che oggi qui in Italia è una necessità coatta, siamo sicuri di volerlo abbandonare a epidemia finita? Siamo davvero ancora prigionieri di una mentalità lavorativa per cui il padrone deve controllare visivamente e fisicamente i suoi dipendenti per assicurare la produttività? E d’altronde, su tutt’altro fronte: lo smart working, cioè il lavoro da casa tramite computer, visto che è “da casa” ha diritto a prendersi tutto lo spazio possibile della vita privata di una persona, o va disciplinato in confini riscontrabili e dunque rispettabili?
Che la scuola si sia trovata impreparata alla crisi è evidente: mi diceva proprio l’altro ieri un mio caro amico psicologo che ogni mattina per “settare” le figlie da casa con la scuola online lui e la moglie richiedono un’oretta circa di operazioni computeristiche a dir poco complesse;
possiamo affidare l’educazione a reti wi-fi labili, computer fatiscenti, programmi astrusi che costringono i poveri insegnati a reinventarsi tecnici informatici?
Tante domande, e molte altre ce ne sarebbero, che nascono dall’esperienza prevedibile e al contempo inaspettata delle famiglie in difficoltà per il loro trovarsi perennemente riunite in quarantena. Domande che devono scomodarci, e indurci a risposte intelligenti che facciano dell’attuale crisi ben più di una malattia stagionale, ma un vero e proprio passaggio epocale a tempi più lucidi e rispondenti a una vita più umana.