In questi giorni inusuali e critici, abbiamo deciso di applicare uno sguardo pasquale a tutta la vicenda dell’epidemia, anzi, della pandemia del Coronavirus, e dei suoi risvolti per la nostra vita.
Ora finalmente potremo immedesimarci con tutti quei poveri fuggiaschi che, cercando speranzosi la vita su sponde diverse da quelle della loro patria ferita dalla fame e dalla guerra, si sono messi in mare, e lì sono morti. Come deve essere, stare a mala pena a galla, nel mare profondo e tenebroso, gelati e spauriti, mentre – ecco! – si vede un’onda immane che s’innalza, e man mano si avvicina, pronta ad abbattersi e a travolgere tutto e tutti, trascinando nei gelidi abissi?
Ora tocca a noi, che stiamo a galla nelle nostre case, incerti sul domani, mentre l’onda (statistica) del contagio s’innalza, e si prepara ad abbattersi su di noi…
Ma no, non può essere tutto qui.
“Signore, salvami!” grida Pietro mentre affonda, non più sicuro della sua fede (cfr. Mt 14, 30). E il Signore, che nel segno del suo dominio sull’acqua anticipa la sua Pasqua, afferra rapido Pietro, e lo riporta alla vita.
“Signore, salvaci!”
Ed ecco che il caos oceanico di questo virus ribollente diventa qualcosa su cui possiamo poggiare i piedi senza affondare, se siamo uniti al Signore: tutto è per noi, anche questa vicenda confusa e pericolosa. Tutto è per noi, se impariamo a guadare l’esistenza con gli occhi del Risorto. Ieri abbiamo visto come persino il digiuno dai Sacramenti può essere per noi, se lo viviamo nella fede, nell’obbedienza, in spirito autenticamente quaresimale.
Ed è per noi anche questa forzata distanza dai nostri cari, questo digiuno necessario (e doveroso) dal contatto fisico, dagli abbracci, dai baci, dalle feste e dai ritrovi.
In fondo, il deserto non è forse il setting più adeguato alla Quaresima?
Quante volte, nella vita ordinaria, abbiamo dato baci, strette di mano e abbracci vuoti, formali, “tanto per”. Eppure, quanto è importante tornare a imparare il lessico dei gesti, il rispetto della gradualità nel contatto e nella vicinanza, la custodia dell’altro nella sua alterità, di cui non posso appropriarmi afferrandolo!
La nostra reclusione, che è nostro compito rispettare per amore, può trasformarsi in un ritiro prolungato, in cui fare una sostanziosa revisione di vita.
In questi giorni posso soffermarmi a riflettere su quali sono le relazioni davvero importanti per me – è semplice: quelle che mi mancano davvero! Proverò magari anche a chiedermi se il linguaggio dei miei gesti, così come quello delle mie parole, fino a oggi è sempre stato autentico (“sì, sì”, “no, no”), oppure ho talvolta mentito con un abbraccio o una stretta di mano, non dando al gesto esteriore il contenuto (di amicizia, di lealtà, di comunione) che avrebbe dovuto avere.
Tutto è per noi: quando riusciremo dalla nostra quarantena quaresimale, forse ci approcceremo all’altro con più circospezione; prendiamo sul serio la lezione della vita, e facciamo in modo che l’esitazione divenga delicatezza, e che il nostro accesso al corpo dell’altro, con un contatto che deve dire solo fraternità, non sia mai più banalizzato.