Potrebbe sembrare una sfida assurda tra la modernità degli stati-nazione e l’antica divisione tribale da cui nasce il mito del “buon selvaggio”. Una materia, quella della costruzione delle società umane, che ancora oggi mantiene vivo il dibattito di politologi, sociologi, antropologi e filosofi, ma che, nel caso dell’Etiopia di questi giorni, anzi di queste ore, si presenta come una resa dei conti tra forze militarmente contrapposte in attesa di far prevalere il proprio dominio mediante l’annientamento dell’avversario.
Da una parte, un Governo legittimo ma delegittimato dal nemico, e dall’altra un movimento ex-governante in lotta per l’affermazione della propria identità e del proprio potere, rivendicato non senza richiami nostalgici. Se guardiamo alla storia di questo grande Paese africano per estensione (quasi quattro volte l’Italia) e numero di abitanti (110 milioni), ma soprattutto grande per l’antica cultura che lo contraddistingue, scopriamo che è vissuto nella memoria collettiva anche attraverso gli stereotipi costruiti dai suoi dominatori del passato, i negus che ne hanno definito la odierna configurazione statuale attraverso sanguinose campagne di conquista imperialistiche.È quella Etiopia che nel 1896, ad Adua, nel cuore del Tigray (e non è certo un caso che ancora da quella regione si mostra oggi una fierezza che trascina violenza, almeno quando ritenuta necessaria), ha saputo reagire vittoriosa all’aggressione coloniale italiana. E se oggi da qualche parte nel contesto internazionale si soffia sul fuoco dell’implosione, della disgregazione dell’unità del Paese, volendo magari far credere che gli incendi si spengono con il vento, cioè rimpolpando e quindi indebitando i belligeranti con la fornitura di nuovi e più sofisticati armamenti, è chiaro che la via della diplomazia, della mediazione e del dialogo si fa sempre più stretta e impervia.
La popolazione, i popoli dell’Etiopia hanno un tremendo bisogno di pace, ne va della loro reale sopravvivenza. Ne avevano bisogno già da prima che scellerate contrapposizioni ai diversi livelli di gestione del potere centrale e regionale facessero esplodere il conflitto nel Tigray che dura da oltre un anno e che rischia sempre più di estendersi nelle coscienze dei cittadini etiopici, costretti a schierarsi chi pro e chi contro l’una o l’altra delle due parti che si stanno confrontando su un campo di battaglia che comprende l’intero assetto istituzionale dell’Etiopia.
Anche la Chiesa cattolica è vittima di questa situazione, anch’essa ha le sue piaghe sanguinanti ed è partecipe delle sofferenze provocate dal conflitto sulle popolazioni di ambedue i fronti.
Forse un giorno sapremo la verità su come sono andate veramente le cose in questo disgraziato conflitto, ma oggi, purtroppo, dobbiamo accontentarci della misera certezza che milioni di persone, di cittadini etiopici stanno soffrendo nel corpo e nello spirito la fame e la violenza che l’assenza di pace sta provocando, da nord a sud, da est a ovest in un’Etiopia martoriata dalla sua più grande ricchezza, che è anche quella della sua Chiesa, cioè le sue molteplici diversità.
(*) redazione “Noticum” (Fondazione Missio)