Una fantasmagoria. Così può essere definito l’ultimo film del geniale regista-sceneggiatore Wes Anderson, “The French Dispatch”, dall’11 novembre nei cinema italiani. Cast all star composto da amici di lunga data: Owen Wilson, Tilda Swinton, Edward Norton, Frances McDormand, Adrien Brody e la new entry Timothée Chalamet. Su Netflix invece il ritorno di Marco Tullio Giordana con il giallo “Yara”, serrata ricostruzione delle indagini sul delitto di Yara Gambirasio avvenuto nella bergamasca nel 2010. Il punto Cnvf-Sir.
“The French Dispatch” (al cinema)
Poco più di una decina di film, ma quasi tutti memorabili per cifra stilistica e messa in scena. Parliamo di Wes Anderson, autore statunitense classe 1969 che ha firmato opere inconfondibili come “I Tenenbaum” (2001), “Moonrise Kingdom” (2012) oppure “Grand Budapest Hotel” (2014). La sua ultima fatica, “The French Dispatch”, in concorso al 74° Festival di Cannes, si traduce in un atto d’amore verso il giornalismo. Come sottolinea lo stesso Anderson: “Questo film è in realtà tre cose contemporaneamente: una raccolta di storie brevi; un film ispirato al ‘New Yorker’ e al tipo di giornalisti per cui questa rivista è famosa; e infine ho trascorso tanto tempo in Francia nel corso degli anni e ho sempre voluto fare un film francese”.
La storia. Nell’immaginaria Ennui-sur-Blasé, in Francia, ha sede la rivista americana “The French Dispatch” fondata da Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray). La sua improvvisa scomparsa riunisce i giornalisti in redazione per condividere un necrologio e un ultimo numero composto da quattro articoli: un reportage dalle periferie della città firmato dal Cronista in Bicicletta (Owen Wilson); “Il capolavoro di cemento”, ritratto del visionario pittore-scultore Moses Rosenthaler (Benicio del Toro); “Revisioni a un manifesto”, racconto della rivolta studentesca attraverso lo sguardo disincantato di una corrispondente di lungo corso (Frances McDormand); e “La sala da pranzo privata del commissario di polizia”, cronaca di un rapimento a colpi di cucina giapponese firmato da Roebuck Wright (Jeffrey Wright).
Si presenta come un affresco multicolore, un mix di atmosfere sognanti dalla creatività a briglia sciolta che sconfinano dalla Francia agli Stati Uniti. E ancora, troviamo una regia e un plotone di attori maiuscoli che si mettono in gioco con classe e raffinata ironia in un racconto che vira nell’orizzonte dell’esercizio di stile; non ultimo, una colonna sonora sempre eclettica, firmata dal premio Oscar Alexandre Desplat (due statuette, la prima proprio per “Grand Budapest Hotel”), che fa volteggiare la storia. Tutto questo è “The French Dispatch”, una ammaliante seduzione per l’occhio e per la mente, che incanta per la genialità di visioni e citazioni, ma che forse si fa fatica a seguire per la linea narrativa del tutto ondivaga e poco realistica; un divertissement d’autore che racconta il mondo del giornalismo attraverso il suo sguardo singolare, dai lampi poliedrici.
Se si rimane rapiti da atmosfere, soluzioni stilistiche e performance attoriali di brillante talento, non si può purtroppo non cogliere in “The French Dispatch” una linea di racconto che appare a tratti impalpabile o persino irritante. Vero è che il cinema di Wes Anderson non è forse per tutti; se si riesce però a stare al gioco, a seguire il suo iter creativo, si scopre allora un universo espressivo davvero colorato, rigoglioso, di raffinata genialità. Dal punto di vista pastorale “The French Dispatch” è consigliabile, problematico e per dibattiti.
“Yara” (Netflix)
Una ferita ancora aperta, bruciante. È il delitto della tredicenne Yara Gambirasio, rapita nel novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo) e ritrovata senza vita nel febbraio 2011 a poca distanza da casa. Sono trascorsi ormai dieci anni da quel terribile fatto di cronaca che ha travolto e devastato una famiglia, una comunità, e ha tenuto sotto scacco un intero Paese per le serrate indagini della magistratura e per la smisurata copertura mediatica, spesso fuori controllo. Il caso si è concluso nel 2018 con la condanna all’ergastolo in Cassazione per Massimo Giuseppe Bossetti.
La tragedia di Yara e i quasi dieci anni di indagini e dibattimenti sono diventati ora un film targato Netflix e Taodue (Mediaset), diretto dal regista Marco Tullio Giordana, autore di un cinema dal forte impegno civile come “I cento passi” (2000), “La meglio gioventù” (2003) o “Lea” (2015). Da un’idea di Graziano Diana e Pietro Valsecchi, con una sceneggiatura firmata dallo stesso Diana (autore di titoli come “Squadra antimafia” e “Liberi sognatori”), il film “Yara” mette a fuoco la scomparsa della tredicenne bergamasca e il lavoro di indagini guidato dal pubblico ministero Letizia Ruggeri.
Chiariamo subito che maneggiare un fatto di cronaca così spinoso e sconvolgente non è di certo impresa facile. Gli autori e il regista hanno trovato forse l’unica via narrativa al momento percorribile, ossia il solo racconto della dimensione investigativa e processuale, sposando la prospettiva della PM Letizia Ruggeri (una sempre misurata Isabella Ragonese). È lei, infatti, il tramite con cui entriamo nelle pieghe della vicenda di Yara, della sua famiglia, sino all’indicibile delitto e al travaglio per la ricerca della verità.
Se ampio spazio viene dato alla ricostruzione investigativa, sembrano mancare invece del tutto opportuni approfondimenti sui protagonisti. La storia appare scarna, raccontata in maniera asciutta, tenendosi distante da un lato da insidiose scivolate emotive, dall’altro però anche da necessari sguardi introspettivi. Giordana comunque conferma tutta la sua bravura nel governare un copione dalla forte linea civile; spiace cogliere uno sbandamento nel finale che si risolve in maniera troppo frettolosa, spegnendo anzitempo ogni pathos. Dal punto vista pastorale il film “Yara” è complesso, problematico e adatto per dibattiti.