Libri: “Abbi cura di me”, quale formazione per il cristiano? Un contributo di don Ruggeri

“Perché sono abituato, invece, a dire: abbi cura di te? Perché penso che siano sempre gli altri che siano carenti e deficitari, a dover essere attenti a se stessi, a prendersi cura di loro stessi. Gli altri si, io no. La formazione nella Chiesa che verrà dovrà conoscere, dunque, anche l’inversione a U: abbi cura di me. Imparare a chiedere, saper dire a una persona che stimo e apprezzo: per favore, quando ti accorgi in me che c’è qualche segnale che non ti torna, ti prego, dimmelo. È un diverso modo di chiedere: abbi cura di me”. È un passaggio del nuovo volume di don Giacomo Ruggeri, intitolato “Abbi cura di me. Fine corsa della formazione. Inediti modi, luoghi, tempi nella Chiesa che verrà” (Ed. Il Pozzo di Giacobbe). L’autore è sacerdote della diocesi di Concordia-Pordenone, è guida di Esercizi spirituali ignaziani. Autore di numerose pubblicazioni e articoli studia le mutazioni teologiche, antropologiche, pastorali in relazione al pensiero digitale e alla cultura di internet nella Chiesa e nella società. L’autore spiega introducendo il libro: “Fine corsa. La formazione è satura. È da tempo che la formazione, soprattutto per i preti – così come riscontro nell’incontrarli di qualsiasi età – non incide più. Una ruota vorticosa di incontri e progetti che rotola su se stessa producendone sempre di nuovi, ma la loro incidenza nel ministero concreto e, soprattutto, nella cura della vita interiore è sotto il minimo, scarsissima. L’impianto strutturale della formazione di una diocesi per i suoi preti è pressoché immutato e reiterato per decenni, oggi risulta ininfluente. Perché la fatica (vera) non è nel saper (voler) cambiare, ma dal non (voler) saper apprendere da quanto si vive in ogni stagione sociale, civile. Abitare il possibile non è così consapevole nelle corde di un presbiterio, perché si preferisce abitare il già noto, il già battuto, il già conosciuto e sperimentato, quello che Bergoglio sigla con il si è fatto sempre così”.
Aggiunge: “la formazione è stata recepita e vissuta come un aggiornamento su determinati temi legati all’attualità. Così facendo tutto il lavoro sulla persona (e di essa nella relazione con gli altri) è stato lasciato al lavoro individuale; questo, per la stragrande maggioranza ha voluto dire non fare niente, lasciando fermentare l’irrisolto puntualmente arrivato”
“Oggi, invece, è la persona che ha invertito la prassi: sono io che mi organizzo per la mia formazione… Tutto quello che, poi, la diocesi (istituto, congregazione) mi propone, lo valuto e decido se ne ho bisogno, se mi interessa, altrimenti lascio correre e non vi partecipo adducendo motivi pastorali avendo molteplici impegni. Ed è così, dunque, che la formazione si è saturata: non è più feconda perché non c’è il terreno dove farla fecondare”. Specifica: le pagine del libro “sono una condivisione, mutuata dagli incontri personali, sull’inedita formazione nei modi (differenziare), nei tempi (al passo della persona), nei luoghi (bussando alla realtà sul territorio e chiedere un aiuto), nelle motivazioni (per dire Resta con noi Signore)”.

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