“Quali parole per dire la fede oggi?”: a rispondere a questa domanda, durante la sessione di formazione ecumenica, promossa dal Sae al Monastero di Camaldoli, Lucia Vantini, da giugno presidente del Coordinamento teologhe italiane (Cti), in un confronto con il pastore valdese di Genova, William Jourdan. Vantini è partita dal carattere paradossale della dichiarazione di fede del padre di un ragazzo posseduto, una fede che convive con l’incredulità, “in un equilibrio instabile che di continuo richiede nuovi assetti e che dunque non deve essere risolto né rimosso”. Per la teologa si tratta del carattere stesso del cristianesimo, che vive di luci e di ombre, la cui radice, o piuttosto “matrice”, l’ebraismo, “nasce e si nutre di un ‘orizzonte del forse’ capace di sbilanciare i soggetti dalla parte della speranza”. Nella dialettica tra croce e risurrezione, tra divino e umano, la fede cristiana “appare come affidamento a un Dio che più si fa vicino e solidale più si rivela misterioso, eccedente, inafferrabile e oscuro”. Vantini rileva che la domanda dell’uomo narrata da Marco non dipende solo da questo “nucleo perturbante che inquieta la fede” ma è espressione della sofferenza impotente per la malattia del figlio che è la sua sofferenza. E rileva: “Si sollevano di nuovo e con forza le domande essenziali della fiducia e della fede: qual è il modo giusto di rappresentare il rapporto tra il divino e l’umano, tra la realtà e la speranza, tra questo mondo e il Regno? È davvero saggio far credito alla vita anche quando tutto sembra andare male?”. Gesù, continua la relatrice, definisce incredulo non solo il padre ma un’intera generazione, “incapace di uno sguardo pasquale sulle vite ferite”, forse a causa di veleni che infettano credenti e non credenti e provocano resistenze al Regno assimilate anche attraverso la cultura religiosa. Una situazione che non è solo dei tempi di Gesù. Per la presidente del Cti, “è arrivato il momento – per tutte e per tutti – di pronunciare parole aurorali”. Per le comunità cristiane si tratta di “avvertire la responsabilità di accompagnare le storie ferite verso un altro destino da quello che il mondo prevede”, ma per fare questo occorre pregare, occorre “chiedere aiuto in uno sbilanciamento che dà credito alle vite ferite”.