“Pensavo che un po’ di polverone lo avrei alzato senz’altro, ma immaginavo solo a livello locale e regionale, non pensavo certo a una risonanza così vasta. Non pensavo nemmeno alla violenza e alla tanta cattiveria che ho percepito, che però mi ha fatto capire lo spessore dello scontro ideologico”. Non sono trascorse nemmeno due settimane dalla pubblicazione dell’intervento di Maria Rita Castellani sul testo del Ddl Zan che incontriamo la Garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Umbria, per approfondire il tema e cercare di andare oltre quella fitta cortina di polemiche che si è innalzata sui media vecchi e nuovi. Un ufficio, quello del Garante per i minori, introdotto dalla Regione nel 2009, prima ancora che – nel 2011 – fosse istituita la medesima Autorità nazionale. La Castellani ricopre l’incarico regionale dal giugno 2020.
Dottoressa, le polemiche per il suo intervento – di fatto – hanno riguardato un’unica frase, quella nella quale si parla di “scegliere l’orientamento sessuale verso cose, animali, e/o persone di ogni genere e, perché no, anche di ogni età, fino al punto che la poligamia come l’incesto non saranno più un tabù, ma libertà legittime”. Uno scenario che lei definisce “non così improbabile”. Riscriverebbe quella frase?
Tengo a precisare che ho scritto un articolo di carattere antropologico-pedagogico rispondendo a un mio preciso dovere istituzionale che è quello di tutelare l’interesse supremo dei minori, da qualsiasi ideologia. Quindi ho denunciato una grave implicanza ideologica nella proposta di legge Zan a partire dal primo articolo dove si enuncia un nuovo paradigma antropologico indefinito chiamato appunto identità di genere. Infatti, mentre l’identità umana è vincolata alla biologia e quindi riconosciuta in maniera oggettiva, quella gender è autopercepita e dunque soggettiva, contingente, e se ci pensiamo bene anche pericolosa, perché culturalmente manipolabile.
Dov’è che – a suo avviso – sarebbe grave e pericolosa la proposta di legge Zan?
La gravità di questa proposta è che il genere pur essendo svincolato da qualsiasi concretezza e tangibilità, si vuole riconosciuto per legge come fosse oggettivo. Non importa se il corpo sessuato esprima ‘altro’. L’importante è che il mio ‘sentire’, la mia percezione venga giuridicamente riconosciuta. Quindi se l’identità è dissociata dal corpo questa dissociazione può essere declinabile in molte possibili variabili. Di conseguenza il concetto di genere, per estensione, si potrebbe applicare benissimo non solo all’identità – percepita come una, o anche come molteplici, plurime o nessuna – ma anche a qualsiasi orientamento sessuale. Ecco perché ho esposto un possibile scenario sociale e culturale, dunque una visione prospettica nella quale possono essere presenti sia l’amore inter-generazionale – quindi la pedofilia e l’incesto – come pure la poligamia, la zoofilia o altro ancora.
In tanti, in effetti, considerano il Ddl Zan come un ‘primo passo’ per raggiungere altri obiettivi, anche se i promotori cercano di smentire questo scenario. C’è dell’altro, secondo lei?
Un’altra evidente ingerenza ideologica gravissima è che si vuole introdurre nella scuola il concetto di identità di genere autopercepito, smentendo 150 anni di psicologia dell’età evolutiva da Freud fino ai nostri giorni, che afferma invece la relazione come struttura dell’essere. L’identità non è auto-percepita ma si forma attraverso la relazione madre-padre-figlio/figlia. I due processi che sono alla base della formazione dell’identità sono attaccamento e distinzione. Al primo stadio della vita del lattante – e persino dalla vita intrauterina, come risulta da studi recenti – spesso risalgono i nodi delle psico-patologie relative all’identità.
Cosa intende con questo?
Ai bambini che fanno domande va insegnato che una mela è una mela e non può essere una pera o un’arancia. Faccio un altro esempio: se come educatore rifletto sul sesso, la domanda non è tanto ‘a che serve’? Ma: ‘che cosa significa’? La prima è una domanda funzionale in chiave descrittiva e rientra nell’istruire, ma per comprendere la portata di ciò che voglio far conoscere, devo presentare il concetto di ‘persona’, che è molto più complesso di quello di identità di genere e di orientamento sessuale.
Cosa ci vuole dire con questi esempi?
Che
siamo chiamati a trasmettere le ragioni sostanziali dell’essere persona e queste sono ragioni di carattere antropologico.
Le domande allora saranno: chi è la persona, perché esiste, quale è il suo scopo nella vita? Una persona può essere definita secondo il suo gusto sessuale? Una persona non è anzitutto una persona a prescindere dai suoi orientamenti sessuali? L’identità di un individuo come si sviluppa e perché? Non a caso, il primo assioma pedagogico si chiama appunto ‘principio epigenetico’ e afferma che tutto nasce e cresce a partire da ciò che c’è.
Cioè, ci spieghi meglio…
Si può educare a partire da ciò che siamo biologicamente, dalla storia che si è vissuta, dalle relazioni che abbiamo avuto e da quelle che viviamo oggi. E non come invece affermano i teorici del gender – fra questi Judith Butler, filosofa statunitense del 1956 – che si può codificare e decodificare la realtà come si vuole.
C’è davvero il rischio che questa legge abbia un forte impatto anche sul mondo della scuola?
È un rischio reale perché cambia l’antropologia tradizionale e naturale, quella che le famiglie comuni sentono come propria. Basta guardare a quello che accade nel nord Europa e dove una legislazione simile a quella proposta dal Ddl Zan è già entrata in vigore. Penso all’Inghilterra, dove stanno cercando di tornare indietro, proprio perché stanno vedendo le cose disastrose che questo sta portando nella vita delle famiglie e dei ragazzi. Le statistiche dicono che sta aumentando tantissimo la richiesta delle adolescenti di cambiare sesso. Ragazzine sempre più giovani, dai 12 anni in su. E questo ci fa immaginare cosa può accadere, fra qualche anno, in Italia. Mi pare si parlasse di un aumento del 40% di queste domande fatte dalle ragazzine e questo ci dice come è manipolabile l’identità culturale, l’identità del genere, perché diventa quasi una moda.
Nei giorni scorsi, molti hanno scritto che lei sarebbe una sorta di ‘pedina’ del senatore Pillon. È così?
In realtà, per 11 anni, sono stata responsabile della Pastorale familiare della diocesi perugina insieme a mio marito e in quel contesto – lontano dalla politica – abbiamo conosciuto Simone Pillon. Era un momento – anni fa – nel quale lui non aveva neanche minimamente ipotizzato l’idea di poter entrare in politica. E non ho avuto poi altri contatti, tantomeno con la Lega. La mia nomina richiede una risposta al di sopra delle parti e io non mi sento e non sono orientata politicamente né a destra, né a sinistra.
(*) intervista originariamente pubblicata su La Voce