Ricoverato in ospedale per questo coronavirus, mi permetto di raccontarmi.
Sono entrato in ospedale di Pordenone, reparto Covid 19 il 10 novembre. Il reparto era già sovrappopolato. Eravamo a un picco dell’epidemia anche nelle nostre zone. Prendo posto di un letto a mezzanotte; il silenzio regnava nel reparto, solo qualche lamento o tenue invocazione di aiuto accompagnava la notte. Ho occupato il mio letto tentando almeno di riposare, perché dormire era impossibile.
Accanto al mio letto c’era un malato che prolungava da giorni la sua agonia mentre nell’altro letto gli infermieri avevano steso quel paravento che indicava un altro decesso del resto frequenti in questo reparto. Non è stata certo una buona accoglienza. Ho pensato tra me, da credente e non da sventurato: sono in buona compagnia.
È triste! I morti da Covid non hanno chi li accompagni in quell’ultimo e breve tratto verso la morte, non una mano che stringa e riscaldi la sua mano, neppure un sguardo che lasci trapelare le lacrime del distacco.
Ma mi son chiesto: può un Padre, il Creatore che ti ha accompagnato fin qui non esserti accanto e non consegnarti l’ultima calda e tenera carezza, la carezza del Padre? E mi son sentito non più estraneo a questi miei fratelli e mi son fatto padre, madre, fratello, sorella. Si perché Lui è l’unico Dio che ci ha plasmati e tessuti fin dal ventre di nostra madre e quel Cristo tutto ha provato prima di loro e prima di me.
Ma ciò che maggiormente mi ha sorpreso è stato il rispettoso e sofferto comportamento degli infermieri: loro stessi – con evidente leggibile commozione – mi hanno invitato ad esprimere un breve preghiera di accompagnamento. “Sia breve, don Covid – così mi chiamavano familiarmente -, dobbiamo lavorare”. Non erano lacrime di familiari quelle che scendevano dai loro occhi ma lacrime ancor più preziose di ignoti fratelli ma figli dello stesso Padre.I giorni passavano, il personale di servizio si turnava e la novità di don Covid si era diffusa. Non volevo sostituire certo il piccolo-grande don Bernardino, ma essendo l’unico prete in reparto facevano riferimento a me.
Non mi ero attrezzato come Dio comanda: olio per l’unzione degli infermi, particole consacrate stole o altri paramenti. Nel massimo rispetto delle regole (mascherine, igienizzazione delle mani), accompagnato da qualche infermiere, raggiungevo le varie stanze e, con il mio stile, annunciavo che avrei dato a quanti lo desideravano l’Unzione degli Infermi “secca” (per mancanza di olio santo), l’Assoluzione generale accompagnata dalla benedizione papale.
A livello di battuta, proponevo sconti speciali per tutti, proprio perché il Signore non vuole lasciare nessuno senza l’abbondanza del suo amore e della sua misericordia.
Mai avrei pensato di aggiungere alla già mia ricca esperienza di prete anche questo titolo di don Covid.L’egoismo non ha occhi per vedere quanto e quanti si dedicano generosamente anche in questa situazione di pandemia. Sono certo che anche il mondo cambierà se sapremo riprendere – tutti e insieme – l’alfabeto della fede e soprattutto dell’amore, che è comprensibile anche agli analfabeti di Dio.
Originariamente pubblicato su “Il Popolo” di Pordenone