At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18
Conoscere, nel Vangelo, è amare intensamente – Il buon pastore conosce ed è conosciuto dalle pecore e dal Padre – e questo amore fa "buono", anzi "bello", il Pastore ed è il segreto della sua forza. È sempre l’amore il comandamento ricevuto dal Padre, che gli consente di "posare" la sua vita per le pecore e per il Padre, come si fa con le offerte sull’altare. E questo amore è così fecondo che raggiunge le pecore fino agli estremi confini.
Gesù è pastore unico, Buon Pastore, perché si contrappone al mercenario che fugge davanti al lupo abbandonando le pecore. È la figura del nemico, del serpente antico. Il pastore buono, invece, offre la vita (la depone: gesto liturgico): egli è insieme sacerdote e vittima.
Gesù è pastore unico come lo è la sua relazione con il Padre. Un rapporto di conoscenza e amore che passa anche nella relazione tra il pastore e le pecore; la relazione tra il Padre e il Figlio è richiesta come nuova condizione (il nuovo comandamento) dei discepoli tra loro. Il primo recinto delle pecore aveva l’ambito del popolo della Prima Alleanza. Ora gli altri ovili indicano la salvezza rivolta a tutta l’umanità; nella prospettiva finale di un solo gregge e un solo pastore.
Gesù è pastore unico perché dona liberamente la sua vita a Pasqua in suprema obbedienza al Padre. La relazione tra le pecore e il pastore è modellata su quella tra Gesù e il Padre, assolutamente incomparabile a quella con un mercenario. Tutta la storia della salvezza e la fede di Israele sono immagine e profezia della relazione che, nel Figlio, Dio stabilisce con l’umanità.
Questo racconto è una similitudine in senso stretto, una specie di allegoria perché ad ogni elemento raffigurato ne corrisponde uno che riguarda la realtà spirituale suggerita. In una parabola che parla di pecore e pastori, le pecore sono pecore e i pastori sono pastori. Se invece il racconto è allegoria le pecore e il pastore rappresentano qual cos’altro. Il pastore è il Messìa; le pecore sono i fedeli; il recinto indica l’atrio del Tempio di Gerusalemme. Il guardiano del recinto è il Levita che sta alla porta del tempio e che custodisce l’ingresso al Tempio e chi entra non approvato dal sacerdote-custode è un ladro e un brigante (si riferisce ai falsi messìa che abbondavano e istigavano le pecore a rivolta in nome della salvezza). Giovanni scrive questo Vangelo dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani; e la distruzione avvenne proprio perché alcuni, proclamandosi messìa, incitarono il popolo alla ribellione.
Angelo Sceppacerca