Nella tradizione del miglior meridionalismo, il Rapporto 2020 della Svimez interpreta la questione del Sud di fronte alle conseguenze della pandemia nei termini di una grande questione nazionale. La ricostruzione post-Covid, infatti, secondo lo storico e autorevole centro studi (Svimez è l’acronimo di Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) offre al Paese un’“occasione irripetibile” per coniugare “crescita nazionale”, “equità sociale” e “coesione territoriale” e per gestire la transizione “orientando i processi economici verso una maggiore sostenibilità intergenerazionale, ambientale e sociale”. Per far questo e per portare a “un’effettiva valorizzazione del contributo alla ripartenza del potenziale presente nelle regioni del Sud e negli altri territori in ritardo di sviluppo”, occorre però una “visione d’insieme”. E questa è la grande sfida che interpella a tutti i livelli la politica e che, intervenendo alla presentazione del Rapporto, il presidente del Consiglio Conte ha mostrato di condividere, parlando a sua volta di “occasione imperdibile” e della necessità di una “piena coesione sociale e territoriale”.
La sollecitazione unitaria è particolarmente importante in un momento in cui l’afflato convergente della scorsa primavera sembra affievolirsi. Ma è un’insidia che non emerge solo in queste settimane se nel 1991 Pasquale Saraceno, il grande economista e meridionalista che della Svimez è stato il fondatore, si diceva preoccupato per “l’appassire del sentimento dell’unità nazionale”, per il “diffondersi, in luogo di quel sentimento, di un rumoroso populismo dialettale che reclama, in nome di interessi e culture locali, la liquidazione fallimentare della nostra storia unitaria”. E’ stato il direttore della Svimez, Luca Bianchi, a citare queste parole profetiche al termine della presentazione del Rapporto.
Il “rumoroso populismo dialettale” di cui parlava trent’anni fa Saraceno è oggi come allora la risposta sbagliata a un problema reale. Perché ci si rende sempre più conto che se il Covid ha colpito tutto il Paese, le sue conseguenze non sono state uguali per tutti perché diseguali erano le condizioni di partenza. “La prima ondata della pandemia – rileva la Svimez – ha avuto per epicentro il Nord. La crisi economica si è però presto estesa al Mezzogiorno dove con più drammaticità si è tradotta in emergenza sociale incrociando un tessuto produttivo più debole, un mondo del lavoro più frammentato e una società più fragile”. A differenza dalla prima, la seconda ondata ha interessato direttamente e da subito anche le regioni meridionali e all’emergenza economica e sociale già sperimentata nei mesi scorsi “si è sommata, nella parte finale dell’anno, l’emergenza sanitaria generata dalla pressione sulle strutture ospedaliere e, più in generale, su tutto il sistema di cura”.
Per il 2020 la Svimez prevede un calo nazionale del Prodotto interno lordo pari a -9,6%, con un -9,8% nel Centro-Nord e un -9% nel Sud. Ma questo andamento impatta su situazioni pre-esistenti profondamente diverse. Nel periodo della “ripresina” dopo la grande crisi finanziaria, tra 2015 e 2018, il Pil del Centro-Nord è infatti cresciuto del 5,2%, quello del Sud solo del 2,5% (in un quadro che ha visto comunque il Pil italiano crescere della metà rispetto alla media europea). Secondo le stime dalla Svimez, dunque, a fine anno il Pil del Mezzogiorno risulterà al di sotto del suo picco minimo del 2014 e inferiore di ben 15 punti percentuali rispetto al 2007 (a fronte di un -7 del Centro-Nord). E’ sul mercato del lavoro che si vedono con cruda evidenza gli effetti di queste dinamiche.
Nei primi tre trimestri del 2020 la riduzione dell’occupazione nelle regioni meridionali è stata del 4,5% , il triplo rispetto al Centro-Nord. Si sono persi 280 mila posti di lavoro, in prevalenza tra giovani e donne, i soggetti che mediamente si ritrovano in condizioni contrattuali più precarie.
A renderci “più fragili di fronte alla pandemia” è stato anche il divario sul piano dei servizi, “dovuto soprattutto a una minore quantità e qualità delle infrastrutture sociali”. E’ un divario che “riguarda diritti fondamentali di cittadinanza, in termini di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura”. Il Rapporto mette in evidenza alcune situazioni amaramente esemplari. La spesa pro-capite dei Comuni nei servizi socio-educativi per la prima infanzia (dati 2018) vede il Centro a quota 1468, il Nord-Est a 1255, il Nord-Ovest a 866, le Isole a 415 e il Sud a 277 euro per ogni bambino 0-2 anni. La percentuale di tempo pieno nella scuola primaria è pari a 46,1 nel Centro-Nord e a 16 nel Mezzogiorno. Nel Sud sono tre anni che i numeri dell’abbandono scolastico hanno cessato di scendere. La chiusura delle scuole a causa della pandemia è stata un ulteriore fattore di moltiplicazione delle disuguaglianze. I ragazzi tra 6 e 17 anni che vivono in famiglie in cui non sono disponibili strumenti informatici sono il 34% nel Meridione contro il 19,8% nel Centro e il 17,6% nel Nord. Nel campo della sanità il divario nell’offerta di servizi è “figlio di un mix drammatico di inefficienze e distorsioni” e di “un progressivo ampliamento nelle dotazioni di personale e infrastrutture a sfavore delle Regioni meridionali”. La misura dello scarto nei Livelli essenziali di assistenza (i Lea), che dovrebbero essere garantiti su tutto il territorio nazionale, viene esemplificata nel Rapporto con il caso della copertura dei programmi di screening per alcune patologie oncologiche: nel 2017 la Regione in fondo alla classifica, la Calabria, aveva come punteggio 2, le Regioni di testa 15. Ed erano tutte al Nord.