“Sono contenta in modo particolare per lo stile: è il modo di parlare di una Chiesa materna che sente il dolore dei suoi figli, ne fa parte e se ne fa carico”. Simona Borello, esperta di comunicazione, commenta così il messaggio alle comunità cristiane in tempo di pandemia, inviato dal Consiglio episcopale permanente della Cei. “Da operatrice della comunicazione – prosegue – mi colpisce il compito che viene a noi affidato di essere testimoni di speranza: in questi mesi di infodemia, di ansie, di cattive notizie, di chi vuole negare la realtà con atti violenti, più che di una contestazione puntuale abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza che possono ispirare le parole. È facile arrendersi alle cose negative, molto più difficile è curare e far risaltare il valore della bellezza”.
Tempo di pandemia come tempo di tribolazione ma anche di preghiera, sottolineano i vescovi. Quanto può aiutare la Bibbia?
Il testo del messaggio è pieno di riferimenti biblici. La Bibbia, infatti, può essere uno strumento di preghiera anche per chi non si sente – per età, per i bambini piccoli – di andare a messa, anche se le celebrazioni eucaristiche si svolgono in piena sicurezza e nel rispetto delle norme anti Covid. Usare così tanto la Scrittura è sicuramente un aiuto per testimoniare che abbiamo anche in casa un modo di pregare stando accanto alla nostra comunità.
Le famiglie, e in modo particolare gli anziani e le donne, sono le più colpite alla pandemia. I vescovi lanciano un preciso appello ad incrementare l’azione di sostegno: cosa si può fare di più, e con quali azioni concrete?
C’è la Caritas, che opera in sicurezza, e ci sono le parrocchie che sono impegnate in prima linea per andare incontro ai bisogni e alle necessità più urgenti delle famiglie in difficoltà a causa dell’emergenza sanitaria in atto. Quello che si può fare di più è continuare a ricordarci che siamo una comunità: ci sono le distanze da rispettare, i nostri anziani e i nostri cari da proteggere, ma non bisogna mai dimenticare che la Chiesa ha una natura profondamente comunitaria. Altrimenti, a furia di isolarci per proteggerci – compito naturalmente doveroso in questo tempo di pandemia – finiremo per non volercene più occupare.
Nella comunità cristiana, l’omaggio dei vescovi, c’è molta creatività pastorale nell’affrontare l’emergenza sanitaria: ci può raccontare qualche esperienza personale?
Qui a Torino, con il Meic, abbiamo continuato il gruppo biblico a distanza. Tramite la piattaforma Meet, abbiamo portato avanti la lettura continua della Bibbia, e la sorpresa è stata che le adesioni sono perfino aumentate: chi, infatti, prima non poteva più frequentare di persona per vari motivi, ora ha ripreso a frequentare proprio grazie alla modalità on line. Ci si organizza e ci si si divide prima, perché non si sovrappongano le voci. Con l’Ufficio catechistico diocesano, inoltre, abbiamo portato avanti gli incontro di formazione per gli educatori via streaming, e le persone si sono sentite toccate, coinvolte, ancora una volta insieme. Nel messaggio del Consiglio episcopale permanente si fa riferimento a questi strumenti e si sottolinea la creatività locale:
è bello che ogni diocesi risponda agli input forniti dalla Cei, a livello nazionale, con la “fantasia della carità”,
come la chiama il Papa, sul proprio territorio.
Le messe, pur con le modalità imposte dall’emergenza, sono un momento fondamentale di ricarica spirituale. In tempo di Covid, sono cambiate anche le omelie dei nostri preti?
È difficile rispondere a livello generale, le omelie sono molto diverse tra di loro, così come sono diversi i sacerdoti che le pronunciano. Parlando con alcuni presbiteri ho colto l’attenzione a tenere un’omelia più corta, per far sì che la liturgia sia più corta non per avere una messa breve, ma per la sicurezza delle persone in tempo di pandemia. A livello di contenuti, ho registrato la difficoltà ad affrontare alcuni temi:
in questo periodo, infatti, è imprescindibile parlare del tempo difficile che stiamo vivendo, altrimenti le omelie diventano disincarnate, le persone si distraggono e non vanno più a messa.
C’è poi l’esperienza personale dei presbiteri, toccati dalla pandemia – loro o delle persone a loro affidate – che rende arduo il compito di essere essere annunciatori di speranza. L’altro rischio, infine, è il
protagonismo che può emergere nelle messe e nelle omelie in streaming:
ci vuole equilibrio, per far sì che non sia il presbitero la persona più importante, a scapito del ruolo attivo della comunità. Nell’Evangelii gaudium, Papa Francesco dice che il prete deve essere al servizio del dialogo tra Dio e il suo popolo: il rischio è che, talvolta, nelle omelie e nelle messe in streaming questa dimensione si perda.
Che ruolo possono avere i sacerdoti e i fedeli per rompere la logica del “si salvi chi può” e trasformare questo tempo come tempo di “rinascita sociale”, come auspicano i vescovi?
C’è una categoria del Concilio Vaticano II che oggi abbiamo un po’ dimenticato, ed è quella di “popolo di Dio”, poco usata anche nella liturgia, fatta eccezione per la festività di Cristo Re che abbiamo da poco celebrato.
Bisogna incoraggiare le occasioni di vedersi in comunicazione con gli altri, anche a distanza ma sapendosi uniti nel nome di Gesù.
Il popolo di Dio che cammina insieme con i suoi pastori evita il “si salvi chi può”, perché essere con gli altri è già potersi salvare. Camminare insieme è sapere che la mia fatica è la tua fatica: non ci si salva da soli.