Qo 1,2;2,21-23; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Ogni verità, ogni giustizia, ogni speranza si misurano nella relazione con Dio. Se si prescinde da questa si capisce anche il rifiuto di Gesù a giudicare i rapporti tra le persone o le vicende umane. Il giusto e il buono si decidono di fronte al Signore Gesù, presente in mezzo a noi e in ciascuno di noi.
L’avidità è condannata, non l’abbondanza, perché a questa aggiunge l’imbroglio e la prepotenza. Non c’è posto per Dio quando l’anima è abbrancata dall’avidità; al massimo è l’idolo a governare pensieri ed emozioni. La pena per l’uomo avido è la solitudine e la sua disgrazia sta nel fatto che non arricchisce davanti a Dio, non ha relazione né vita di comunione. La sciagura del ricco è di morire solo, lontano da Dio e lontano dagli uomini.
Felicità e vita lunga non vengono dalle ricchezze. C’è da fare i conti con l’incognita della morte. Nessuno è padrone della propria vita, neppure del proprio raccolto. Il problema portato dall’uomo della folla è occasione d’insegnamento per tutti. Ciò che divide i fratelli è proprio ciò che dovrebbe unirli: i beni che sono doni di Dio per la condivisione. Questa è la causa di tutte le guerre, di tutte le lotte e di tutte le inimicizie. Dimenticando il Padre, gli uomini litigano per la roba.
I beni condivisi fanno vivere e danno gioia perché arricchiscono le relazioni; invece soffocano quando sono accumulati per paura della morte. L’imbecillità è quando ci si sente soddisfatti di averli e non si è mai provata la gioia di un dono.
La morte arriva e chiede di restituire la vita. Allora vuol dire che l’abbiamo avuta in prestito da Dio. Questo Vangelo ci aiuta non solo a cambiar modo di vedere le cose, ma innanzitutto la nostra vita. Siamo tenuti a restituirla, continuamente a chi ce l’ha data. Il modo migliore e più gratificante è quello di condividerla con gli uomini e le donne della folla. Facendolo li riconosceremo per quello che sono: fratelli e sorelle.
Angelo Sceppacerca