La lettera Samaritanus bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, pubblicata il 22 settembre dalla Congregazione per la Dottrina della fede, “è espressione della continuità del magistero della Chiesa su un aspetto, quello della cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, che da sempre è stato considerato cruciale nell’assistenza al malato e che con l’avvento delle tecnologie biomediche ha richiesto un ripensamento anche sul piano dottrinale e del discernimento nelle situazioni particolari”. Lo afferma Antonio G. Spagnolo, coordinatore della Sezione di bioetica e medical humanities della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, commentando al Sir il documento del dicastero della Santa Sede.
L’eutanasia è un atto omicida, “un crimine contro la vita umana”, “un atto intrinsecamente malvagio in qualsiasi occasione e circostanza”, afferma la Congregazione per la Dottrina della fede, precisando che “coloro che approvano leggi su eutanasia e suicidio assistito si rendono complici di questo grave peccato”. Di qui la legittimità dell’obiezione di coscienza. Dunque, in estrema sintesi, non esiste un diritto all’eutanasia o al suicidio assistito, ma esiste il diritto alle cure palliative e, in fase terminale, alla sedazione palliativa profonda. Parole chiave del testo compassione e accoglienza. Ed anche cura perché inguaribile non è mai sinonimo di incurabile.
Si tratta – prosegue Spagnolo – di una continuità dottrinale che, a partire dai Discorsi di Pio XII in poi, si è espressa in tanti documenti magisteriali che ne hanno via via sempre meglio precisato l’orientamento morale e pastorale da perseguire. Le citazioni che corredano la lettera ripercorrono tutti questi documenti, fino alla Nuova Carta degli operatori sanitari, citata circa 15 volte, richiamando i punti dottrinali a beneficio del personale sanitario che è accanto ai pazienti in questa fase della vita”.
Professore, c’era realmente bisogno di un altro documento sui temi del fine vita?
La risposta la troviamo chiaramente espressa nella preoccupazione di ribadire con chiarezza alcuni aspetti che in questi ultimi anni, all’interno di varie legislazioni e protocolli clinici, potevano risultare ambigui o francamente contrari all’insegnamento del magistero.
Quali ad esempio?
Uno per tutti, l’erronea interpretazione che le cure palliative e la sedazione profonda – a cui tutti i pazienti hanno diritto – potessero includere anche l’eutanasia e l’aiuto medico al suicidio. Dunque, si tratta di orientamenti ben chiari da sempre nel magistero, che avevano bisogno di essere riaffermati nei loro principi dottrinali.
A suo avviso, la lettera contiene anche qualche elemento di novità?
Un aspetto sicuramente nuovo, che non mi sembra sia stato trattato in modo sistematico in precedenti documenti del magistero (nella lettera non è corredato di riferimenti), è quello relativo all’accompagnamento e alla cura in età prenatale e pediatrica.Viene sottolineato che, fin dal concepimento, la medicina oggi è sempre in grado di assistere e accompagnare in maniera rispettosa la vita dei bambini affetti da malformazioni o patologie di qualsiasi genere. In questa prospettiva è importante anche il riferimento agli hospice perinatali (ancora poco diffusi nel nostro paese) che forniscono un essenziale supporto alle famiglie che accolgono la nascita di un figlio in condizioni di fragilità. Per questi bambini, viene ribadita l’astensione da ogni trattamento inefficace – che non vuol dire desistenza terapeutica – mantenendo aperto il percorso di accompagnamento alla morte anche con una idonea analgesia e sedazione palliativa. Da qui la necessità di formazione del personale medico-infermieristico e la necessità di dare attuazione ai protocolli per il trattamento del dolore.
Lei ritiene necessaria una migliore attuazione della legge 38/2010?
Sì. Nel nostro Paese un’ottima legge come la 38/2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore non sempre viene applicata appieno e questo spesso conduce ad un aumento della richiesta di eutanasia come unico mezzo per alleviare il dolore.
Qualcuno ha definito la lettera “lontana” dal letto del paziente.
Certamente il documento rimane un’analisi delle varie circostanze dal punto di vista dottrinale e della riaffermazione di principi chiave del magistero, aspetto questo che qualcuno può aver interpretato come troppo distante dal letto del malato. In realtà ritengo che tutto questo vada ora rinviato al discernimento del personale sanitario che nella situazione concreta si trova ad accompagnare il paziente nella fase finale della vita, e che dai quei principi è certamente illuminato nel suo operato. La singolarità del caso rappresenta anche un momento importante di comprensione della dottrina: come non riconoscere nel richiamo della lettera allo “stare” accanto al paziente da parte dell’operatore sanitario, uno dei segni dell’amore, e della speranza che porta in sé e che la dottrina intende affermare? Si tratta, in altre parole, di comprendere come la personalizzazione del caso – che non vuol dire semplicemente casuistica – arricchisca anche la comprensione della dottrina.
Nello “stare” c’è un invito alla compassione e all’accoglienza del malato nel momento più difficile della sua vita.
In questo senso si può dare una risposta all’esasperazione della cosiddetta autodeterminazione del paziente e alla sua sostanziale solitudine. Dice la Lettera che il tempo del fine vita è un tempo di relazioni, un tempo in cui si devono sconfiggere la solitudine e l’abbandono. Ecco allora che privilegiare, ad esempio, la pianificazione condivisa dei trattamenti invece che le disposizioni anticipate elaborate in solitudine dal paziente, esprime meglio la presenza e condivisione di chi sta accanto al malato e mostra il senso della “comunità sanante”.