Bar 5,1-9; Fil 1,4-6.8-11; Lc 3,1-6
Prima c’è il profeta Baruc che pressa Gerusalemme alla speranza e alla gioia, perché il popolo sta per ritornare da tutti i posti dello sparpagliamento. Il Signore lo rimette insieme. Anzi, per aiutarne il ritorno, spiana le montagne davanti a loro e ricolma i precipizi aperti sul cammino. Il ritorno a casa è avvolto dalla presenza di Dio che è la sua gloria e si svolge nella più assoluta contentezza. Gerusalemme, la madre, può tornare a guardare i suoi “figli riuniti” da ogni parte dalla Parola del Signore. È facile riconoscere nei deportati, che ritornano, il popolo di Dio in cammino verso il Padre. E in Gerusalemme che li raccoglie la Chiesa che è madre. In ogni caso si tratta di noi, della famiglia umana non più orfana e disperata. E questo è di una bellezza sconvolgente. Lo diceva santa Teresa d’Avila che l’incanto e la bellezza di un’anima salvata e in grazia di Dio sono talmente grandi che se uno potesse misurarli morirebbe dallo sbalordimento e dalla felicità.
Poi c’è il Vangelo di oggi, con i suoi imperatori, governatori, tetrarchi, sommi sacerdoti. Su chi di essi scende la Parola di Dio? Su Giovanni, una voce nel deserto. Dio ha scelto Giovanni perché stia di fronte al suo volto, che è Gesù, perché è pronto ad accogliere il Signore che viene. Giovanni è l’uomo dell’attesa, della fede assoluta nella promessa di Dio. Per incarnarsi Dio ha bisogno di qualcuno che l’attenda. E basta uno in attesa perché la salvezza sia cattolica, universale, per tutti.
L’evangelista Luca non racconta una favola, ma una storia reale. Giovanni e Gesù non sono figure mitiche, ma persone concrete. Da secoli in Israele non si udiva la voce di un profeta. Il centro della storia non è il potere politico mondiale (Tiberio Cesare), né il potere politico e religioso locale (Pilato, Erode, Anna, Caifa), ma la Parola di Dio che comincia a cambiare la storia. Dall’imperatore di Roma ad una voce che grida nel deserto: dalla storia universale all’uomo di Dio, per tornare a tutte le genti. Un processo di concentrazione e dilatazione: incarnata in un punto, la salvezza è rivolta a tutti. La Parola di Dio non si fa udire nei palazzi del potere, ma nel silenzio del deserto, il luogo vuoto e inabitabile dove l’uomo trova la verità sua e di Dio.
Il silenzio è terreno adatto ad accogliere la Parola di Dio: lì si è formato il suo popolo, dopo l’esodo dall’Egitto. Nel deserto si è uguali, non si ha nulla d’ingombrante, si cammina insieme, si condivide, si è fratelli e poveri nella stessa misura, ricchi solo della solidarietà e dell’aiuto reciproco. L’unica sicurezza speranza! nel deserto è il futuro, la promessa. Per ottenerla occorre il battesimo. E Giovanni è il battezzatore, colui che invita ad immergersi, ad andare a fondo, per ricevere in dono una rinascita. Battesimo è sinonimo di conversione, di cambiamento di mentalità e di vita. Nell’avvento, Giovanni è un gigante dell’attesa. Di più c’è solo Maria. E a breve la contempleremo immacolata, senza alcuna ombra di male.
Non c’è nulla che possa liberarci dal male; solo il perdono. E Giovanni grida nel deserto la consolazione, il perdono di Dio. È il perdono che ci fa capaci di accettare l’invito a raddrizzare le vie e a colmare i burroni delle ineguaglianze e delle ingiustizie. Ma gli abissi sono anche quelli della disperazione di chi non spera più. Se la giustizia è opera dell’uomo, la speranza è frutto della misericordia di Dio. Colmati i burroni, bisogna anche abbassare le “cime” dei monti e dei colli, ossia renderci umili come Maria. Umili perché siamo terra: homo, humilis, humus hanno la stessa radice.
La poesia ci aiuta a dire. “Dovrei disfare il tetto e poi le mura / discendere a trovare le fondamenta / e poi ricostruire un’alta torre; / dovrei ascoltare il tempo che trapassa, / non disperare se il presentimento / della Tua volontà si serba ignoto. / Per una sola cosa che io conosco: / Tu sei l’attesa attendere, dovrei / per arrivare a Te sino a toccarti” (L.Ghiselli). Per “toccare” Dio, bisogna attendere. L’Avvento questo tempo è tempo d’attesa gravida di speranza.
Angelo Sceppacerca