Siracide 24,1-4.12-16; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18
Le letture di questa seconda domenica dopo Natale sottolineano in più punti l’inserimento del Figlio di Dio nella storia. Il testo del Siracide presenta la Sapienza trascendente di Dio che dimora nella gloria celeste e viene mandata sulla terra, in un preciso ambito storico, in modo che abbia una sua patria. Il Creatore le dà un ordine: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele”. E la Sapienza discende tra gli uomini: “Nella città amata mi ha fatto abitare; in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore, sua eredità”.
Il Vangelo del giorno evoca questo entrare della Sapienza divina in una concreta situazione storica con il celebre versetto del prologo giovanneo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (ma anche, più esattamente: “Pose la sua tenda in mezzo a noi”). Il Verbo divino, che trascende e abbraccia tutti i tempi e tutti gli spazi, si è fatto vero uomo in un preciso momento storico; ha preso un cuore, un volto e un nome di uomo, Gesù. Anzi, si è fatto uomo ebreo, ha fatto proprie una lingua e una cultura particolari; ha avuto una patria e ha amato in modo speciale alcune città: Betlemme, dove è nato; Nazareth, dove è cresciuto; Cafarnao, dove ha predicato; Gerusalemme, dove è morto e risorto.
Se il Verbo si è fatto carne, il Risorto si è fatto Chiesa. E, prolungando la logica dell’incarnazione, ha voluto che anche la sua Chiesa fosse non solo universale, ma anche particolare. Chiesa particolare è la comunità diocesana riunita intorno al vescovo. Ma, all’interno della diocesi, la vita ecclesiale si caratterizza ulteriormente in altre figure, specialmente le parrocchie, dove ci si incontra, ci si chiama per nome e ci si guarda negli occhi, dove l’appartenenza può essere sperimentata come in una famiglia.
Il Prologo del Vangelo di Giovanni contiene ripetute più volte, perché si imprimano nella nostra memoria le grandi verità della fede: la preesistenza divina del Verbo, del Figlio di Dio eterno insieme al Padre; l’incarnazione del Verbo e l’adozione a figli di Dio di coloro che credono in lui. Gesù è la grande luce che ha rischiarato le tenebre che avvolgevano il mondo. Tenebre di egoismo, di violenza, di morte, di peccato. Eppure il mondo non l’ha riconosciuto. Solo alcuni hanno accettato la sua luce e l’hanno riconosciuto: questi sono chiamati figli di Dio.
Come in un quadro a forti contrasti di luci e ombre, fin dal Prologo Giovanni pone Gesù come pietra di inciampo, come Colui dinanzi al quale bisogna operare le scelte fondamentali della vita. Non si può rimanere indifferenti, non schierati. Giovanni, fra la luce di Dio e le tenebre del mondo, pone la carne di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo come noi, carne della nostra carne. Se Dio ha assunto la nostra carne, vuol dire che ogni nostra esperienza è stata vissuta, con-divisa da Lui. Ogni povertà, debolezza, solitudine, fame, malattia. Ma anche ogni nostra gioia, consolazione, comunione, salute.
Dinanzi al Prologo di Giovanni possiamo sentirci come ai piedi di un massiccio altissimo, o al bordo di un abisso oceanico. Giovanni, però, rasserena il nostro stupore e timore perché ci mostra che il monte è sceso fino a noi e che l’abisso è stato colmato, perché l’indicibile si è fatto Parola, lo Spirito Carne, Dio si è fatto uomo. Solo così per noi, uomini di carne e ossa, si è aperta la possibilità di una vita salvata, redenta, non più disperata, ma piena di senso.
“In principio” ha un significato temporale, ma più profondamente ha il significato della fonte. Una parola con cui inizia il Vangelo di Giovanni, ma anche tutta la Bibbia. Ognuno di noi, e ogni persona del mondo, può sempre, quando ascolta questa Parola, ritornare al Principio, o meglio essere da questa Parola riportato al Principio, cioè a Dio stesso, e anche al principio della vita sua personale di povero peccatore chiamato misteriosamente alla condizione di figlio di Dio.
Alla fine della Bibbia, un altro libro di Giovanni, l’Apocalisse che presenta la nuova e definitiva Gerusalemme come una città viva, perché è come una sposa pronta e adorna.
Una città è viva, diceva Giorgio La Pira, il “Sindaco Santo” di Firenze, quando, come la celeste Gerusalemme, ha tre dimensioni: l’altezza, la lunghezza e la larghezza: “Nella visione finale San Giovanni ci parla della celeste Gerusalemme, descrive l’angelo che misura questa città, e ne misura l’altezza, la lunghezza e la larghezza: le tre dimensioni della città celeste […] Ma cosa sono queste tre dimensioni? L’altezza è la gerarchia dei suoi valori; guardate la città, le case, fino alla cattedrale: è una gerarchia di valori che ha al vertice i supremi valori contemplativi. La lunghezza sono i secoli, è il tempo e le generazioni. Cioè tutte le generazioni che hanno abitato la città e l’abiteranno. Tutti i secoli che l’hanno costruita, tutti gli ingegni, tutte le forze soprannaturali e naturali, cielo e terra vi han posto mano. È la sua vocazione. Un popolo ha l’istinto della sua vocazione. […] La larghezza: è lo spazio nel quale si irradia questa città, che ha questa gerarchia di valori, che ha questa vocazione”.
Davvero la meditazione del Prologo di Giovanni ci aiuta a prendere la misura: nostra e quella delle nostre città. E a riscoprirne la vocazione, che è sempre chiamata alla fede in Gesù Cristo.
Angelo Sceppacerca