“Paolo Borsellino ci ha insegnato il rispetto profondo, sacrale, delle istituzioni, che devono essere servite. Ha fatto il proprio dovere a costo della sua stessa vita, sapendo di andare incontro alla morte”. Massimo Russo, oggi sostituto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni di Palermo, ricorda così il magistrato ucciso dalla mafia il 19 luglio di 28 anni fa, in via d’Amelio, assieme a cinque agenti della scorta. Ricorda dialoghi e momenti condivisi negli uffici della procura di Marsala, dove ha lavorato con Borsellino, tra il mese di novembre 1991 e il marzo 1992, quando poi quest’ultimo tornò a Palermo come procuratore aggiunto. “Un’esperienza intessuta di una simpatia umana intensa”, riferisce l’ex pm. Il ricordo che Russo oggi conserva è quello di “una persona affabile che si poneva con i giovani magistrati con il tratto del maestro che dispensava consigli”. “Era un vero padre di famiglia”.
Quale episodio, vissuto insieme in quegli anni, custodisce nella sua memoria?
Paolo Borsellino mi affidò le indagini su un fascicolo di 416bis (reato di associazione di tipo mafioso, ndr) in cui erano coinvolti soggetti di Mazara del Vallo, mia città natale. Quindi, ritenne di dovermi avvertire dicendomi che era indeciso se assegnarmele perché avrei dovuto occuparmi di miei concittadini. E aggiunse che ciò mi avrebbe esposto a rischi. Allora, ebbi l’accortezza di dirgli: “Scusa, Paolo, ma tu di dove sei?”. E mi rispose: “Di Palermo”. E aggiunsi: “E di cosa ti sei occupato?”. E lui: “Della mafia di Palermo”. Cercai di portarlo retoricamente a questa risposta per spiegargli che non avrei avuto problemi a occuparmi di quell’indagine, come aveva fatto lui stesso nel suo caso. Allora, la sua raccomandazione fu: “Mano di velluto in pugno di acciaio”.
Come ha appreso la notizia della strage di via d’Amelio?
Ero con la collega Alessandra Camassa, stavamo studiando un fascicolo, in una casa nel Trapanese. Ci arrivò la telefonata della sorella che ci avvisava che era avvenuto un attentato a Palermo, che si era sentito un boato e il susseguirsi di sirene. Ci rincorremmo con le telefonate e apprendemmo che purtroppo il nostro ex procuratore era stato ucciso. Fu una cosa terrificante, dopo l’orrore di Capaci, vivere la scomparsa di una persona con la quale avevo lavorato. La settimana prima del 19 luglio era tornato a Marsala per un saluto di commiato. Paolo Borsellino era andato via da Marsala nel marzo ’92, ma non aveva ancora fatto il saluto con i colleghi e i dipendenti della procura.
Quando tornò, una settimana prima di essere ucciso, non era più la stessa persona che avevamo conosciuto. Non era più la persona gioviale, con la battuta pronta. La strage di Capaci aveva risucchiato anche il suo spirito. Aveva la responsabilità di proseguire il lavoro di Giovanni Falcone e aveva la consapevolezza che sarebbe stato il prossimo a essere ucciso.
Quale insegnamento resta?
Il suo messaggio etico è quello di andare avanti, di chi non si piega. Dimostra il suo senso del dovere, l’attaccamento alle istituzioni. L’amore per questa terra fu tale da superare il richiamo degli affetti familiari. Andò consapevolmente verso la morte. Paolo Borsellino ha lasciato un segno indelebile del suo impegno per la giustizia e per la verità ed è un’eredità traboccante di contenuti etici per le future generazioni, non soltanto di magistrati. Anzitutto, il suo ideale di giustizia di tutti e per tutti è un’ideale civile e morale. La sua tensione per liberare la nostra terra dall’oppressione mafiosa, la sua laica religione del sacrificio e del dovere, il sacrificio come regola di vita e a costo della sua stessa vita, il suo amore per le istituzioni, il suo senso di Stato di cui si sentiva umile servitore: sono solo alcuni dei valori che hanno ispirato la sua esistenza. La sua è un’eredità luminosa e, in questo momento, quanto mai utile.
In questa fase di sbandamento etico della magistratura, ci insegna come vivere la funzione, sottratta al calcolo e alla contrattazione di utilità e interessi personali. È e rimarrà un punto di riferimento per la magistratura e per i cittadini onesti di questo Paese.
Sono trascorsi 28 anni, ma dai processi non è emersa ancora la verità sulla strage di via d’Amelio. Come si spiega?
L’ultima procura di Caltanissetta ha fatto un lavoro straordinario, silenzioso, conseguendo risultati importanti. Un depistaggio gravissimo è stato svelato. Altri controlli giudiziari non avevano saputo intercettare una falsa verità che era stata inoculata con un subdolo inganno. Nei tre gradi di giudizio si era messo il crisma della definitività su una verità sbagliata. La procura di Caltanissetta ha ricostruito un contesto diverso. Ma ancora mancano tasselli e una cornice di riferimento ben più ampia della singola vicenda Borsellino. Si tratta di una cornice relativa alle stragi del ’92 e del ’93 di attacco allo Stato. In questo contesto, la domanda inquietante è se fu soltanto Cosa nostra ad agire o se fu spinta da qualcuno magari, in ipotesi, per poi avere la forza di prenderne le distanze.