Oltre 28mila persone con disturbi dello spettro autistico (Dsa) – la metà di età compresa tra 0 e 11 anni – sono state prese in carico nel 2019 da 14 enti del Terzo settore di ispirazione cristiana. Lo rivela l’indagine I servizi per la diagnosi e il trattamento, la cura pastorale e il sostegno alle famiglie per le persone con Dsa, offerti dalle strutture cattoliche e di ispirazione cristiana, promossa dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei e presentata oggi. Queste realtà, presenti con 52 sedi operative su tutto il territorio nazionale, partecipano al Tavolo sull’autismo avviato nel 2019 dal suddetto Ufficio Cei. Di “contributo significativo al Ssn, soprattutto nella gestione delle fragilità e nei percorsi di presa in carico” parla don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio, auspicando che queste realtà non vengano “marginalizzate e dimenticate”, né “confuse con la sanità profit”. Soddisfatto anche Stefano Vicari, responsabile Unità operativa complessa di neuropsichiatria infantile dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e referente scientifico del Tavolo Cei, che spiega al Sir: “Desideriamo un maggiore riconoscimento da parte del Ssn ma l’elemento più importante è che abbiamo fotografato una realtà che nessuno immaginava di queste dimensioni”.
“Abbiamo contattato – ci racconta – i centri di ispirazione cristiana che si occupano di autismo e al loro interno abbiamo trovato non solo realtà di eccellenza a livello internazionale – cinque Irccs (tra i quali anche il Bambino Gesù, ndr) – ma anche strutture che a livello più capillare svolgono sul territorio attività di cura e trattamento altamente qualificata”. Il referente del Tavolo evidenzia inoltre che 28mila assistiti è “un numero enorme” e sottolinea l’importanza che le procedure per la diagnosi e i protocolli di trattamento adottati dai centri intervistati siano riconosciuti “come Golden Standard a livello internazionale, il miglior approccio possibile in tema di autismo”. Ora, prosegue, “restituiamo questo materiale non solo alle famiglie, ma anche a chi ha responsabilità di governo per far sapere e dimostrare nei fatti che la rete che stiamo costruendo rappresenta un pezzo estremamente qualificato del nostro Paese, che agisce secondo linee guida certificate e può essere un valido partner per migliorare la qualità assistenziale delle persone con autismo”.
Per il neuropsichiatra occorre accendere i riflettori “su un fenomeno sottovalutano e poco considerato, come ha dimostrato il lockdown che per queste persone ha rappresentato la sospensione, e quindi l’assenza pressoché totale di cure. Una situazione drammatica amplificata ulteriormente dalla mancata riapertura delle scuole”. Di qui un interrogativo provocatorio:“Ma che Paese è quello che si preoccupa di far ripartire il campionato di calcio ma non la scuola? E’ un Paese che investe poco sul proprio futuro”.
Eppure la scuola è fondamentale come “agenzia educativa che può offrire a questi bambini l’opportunità di sperimentare relazioni di qualità con i propri coetanei al di fuori del contesto familiare”. Per quanto riguarda le cure, l’esperto ci spiega che sono diverse secondo le fasi di sviluppo. Nel bimbo 0-6 anni sono particolarmente efficaci i trattamenti “comportamentali intensivi” e la terapia mediata dai genitori, mentre “particolari diete o trattamenti psicoanalitici sono assolutamente inutili”, avverte mettendo in guardia i genitori, spesso soli ad orientarsi tra le terapie proposte. Ecco perché è importante rivolgersi solo a centri che “seguono linee guida basate su evidenze scientifiche”, come quelli dell’indagine Cei. Con i bambini più grandi e gli adolescenti i trattamenti cambiano: “ogni fase di sviluppo ha necessità di un intervento adeguato specifico e tutti i centri da noi intervistati sono in grado di modulare gli interventi secondo le necessità”.
E poi le famiglie… Per loro il lockdown è stato durissimo. “Il compito dei genitori di un ragazzo autistico, soprattutto nelle forme più gravi, è davvero molto impegnativo”. Per questo, oltre al paziente viene presa in carico tutta la famiglia, “ma ciò si scontra con la regolamentazione del sistema sanitario. Se il legislatore non si è posto il problema di come continuare la terapia durante la quarantena, molti operatori hanno proseguito, di loro iniziativa, tramite pc e tablet ad ‘accompagnare’ e sostenere i genitori, ma non tutte le regioni prevedono remunerazione per questa attività lasciata per lo più alla buona volontà e responsabilità dei singoli”. Eppure, “questa mancanza di direzione a livello centrale nega il diritto alla cura, ossia alla salute, a persone particolarmente vulnerabili”. Che oltretutto, compiuti i 18 anni, “sembrano svanire nel nulla. Pochissimi i centri che si occupano di autistici adulti; per fortuna dalla nostra survey emerge che diverse tra le strutture intervistate se ne fanno carico”.
I Dsa sono la forma di disabilità più frequente nell’età dello sviluppo; ne soffre circa il 2% della popolazione. Per questo, sostiene l’esperto,
“è urgente una modalità di intervento coordinata e sempre più basata sull’evidenza scientifica.
I dati presentati oggi possono costituire uno stimolo per i nostri governanti e dimostrare che tutto ciò non è fantascienza. Siamo a disposizione di chi deve decidere in materia di sanità pubblica, augurandoci di non continuare ad essere ignorati”. E conclude: “Non vogliamo essere più definiti erogatori di servizi perché qui non si tratta di appaltare singole prestazioni riabilitative, ma di proporre un progetto di vita a 360° che mette sempre al centro la persona”.