Domenica 16 settembre

Esodo 32,7-11.13-14; 1Timoteo 1,12-17; Luca 15,1-32 Il cuore di Dio ha un unico e grande desiderio: che ogni uomo non si perda e quantunque si perdesse la tenacia del Padre è quella di esserlo sempre e comunque verso i suoi figli. La misericordia di Dio, tipico tema lucano, è come un costante occhio che cerca ciò che non ha ancora trovato e brama di abbracciare ciò che si è perso. Il capitolo quindici dell’evangelista Luca, unico nella produzione dei quattro Vangeli, è di certo uno dei testi più conosciuto sin dai tempi della formazione catechistica dell’infanzia. E come ogni cosa e testo noto, porta con sé delle vene di sorpresa. Il mormorare e il chiacchierare fini a se stessi sono delle erbe cattive che nascono anche nel terreno ecclesiale. Vengono in mente le parole di Gesù quando, in un altro passo, dice: “Il vostro parlare sia sì sì, no no. Il di più viene dal maligno” a ribadire la trasparenza e l’essenzialità delle parole e tutto ciò che è di più rischia di ferire ed imbrattare il fratello. Mentre i peccatori e pubblicani (persone non ben viste a quel tempo, ma cercate da Gesù) si avvicinano al Maestro per ascoltarlo, i farisei e gli scribi (uomini in vista e oggetto di giudizio da parte di Gesù) se ne stavano ben lontani da lui. E mormoravano. La mormorazione è una pianta che non va seminata, ma qualora spuntasse dal terreno è bene sradicarla alla radice. Molte volte essa ha arrecato danni morali, spirituali e relazionali gettando in cattiva luce persone buone. Ma la mormorazione quando trova un terreno ostile alla sua riproduzione si ritrae senza dare frutto. Nella vita di parrocchia tale pianta non è esente dal nascere e fiorire. È importante recuperare il buon uso del silenzio che non è sinonimo di tacere, ma di saper parlare solo per edificare, crescere e correggere. Antidoto alla mormorazione è la saggezza di usare parole vere, sobrie, misericordiose proprio perché ciò che è male viene annientato solo dal bene, e non da altro male. Il parlare e il giudicare può portare alla solitudine e all’emarginazione della persona, sino a perdersi. Come le parole del fratello maggiore che, invitato da suo padre, non voleva entrare in casa in quanto contrario all’atteggiamento e comportamento di suo fratello minore. Non credo che sia solo una questione di gelosia, ma vedo una sorta di agire che spesso serpeggia anche tra i credenti. È quell’atteggiamento insoddisfatto nel vedere che l’amore venga sprecato! Come a dire: dopo tutto ciò che ha commesso mio fratello, anche la festa in grande stile si è meritato. Perché a lui tanto e a me poco? Questa domande è posta, non a caso, in apertura della Bibbia nel libro della Genesi nella storia di relazione tra Caino e Abele: qui finì con la morte del secondo. Nel brano di Luca termina con l’autoesclusione volontaria dall’amore del Padre che non fa differenza di persone. Ritrovare, far entrare, chiamare per far festa, lasciare per trovare: sono alcuni dei verbi che caratterizzano il brano del Vangelo e che ci ricordano lo scopo per cui siamo sulla terra. Quello di sapersi sempre nella pupilla dell’occhio di Dio che “quand’era ancora lontano il Padre lo vide” non come occhio che viola la privacy, ma come luce che dona vita alla pianta che vive esclusivamente di essa. Sono verbi, questi, che vanno coniugati nella relazione tra vescovo e sacerdoti, parroco e vice, tra catechisti e ragazzi, tra genitori e figli, madre badessa e consorelle della medesima comunità. Dalla declinazione di tali verbi prende vita quella nuova tavola alla quale mangiare il cibo della relazione nutriente con Dio. Ci si guardi bene dal voler cercare altre tavole o surrogate di esse, perché è da queste che prende vita la relazione con Dio. Stare lontano da questa tavola comporta il cibarsi delle proprie opinioni e pensieri, giudicando chi – da peccatore agli occhi nostri, ma cercato come figlio agli occhi di Dio – si avvicina per essere parte integrante di questa tavola. Giacomo Ruggeri