Domenica 2 settembre

Siracide 3,17-18.20.28-29; Ebrei 12,18-19.22-24; Luca 14,1.7-14 2 settembre 2007. Sarà la domenica che nel tempo sarà ricordata, assieme alla sera prima, come la domenica dell’Agorà a Loreto. Benedetto XVI incontra nella spianata di Montorso i giovani italiani e alcune delegazioni di giovani provenienti dall’estero. In quella spianata il Papa dirà e donerà ai giovani parole forti e pesanti, intese come orientamenti e percorsi possibili nella logica del Vangelo. E proprio la Parola dell’odierna ventiduesima domenica del tempo ordinario offre una chiara indicazione di ciò che il Papa dirà ai giovani: che la fede cristiana è questo essere “invitati alle nozze da qualcuno”. E questo qualcuno ha un nome: Dio Padre. L’entrare di Gesù nella casa del fariseo è per farlo uscire dalla pienezza di se stesso, per metterlo in relazione con chi solitamente non varca mai la sua soglia di casa: poveri, storpi, zoppi e ciechi. L’uomo, nella sua natura, sta male se non si sente chiamato in causa, se non viene reso visibile, se non appare (le file di selezione per i programmi televisivi di un certo taglio ne sono la conferma). Gesù dice: non scegliere il primo posto, non metterti davanti a tutti, dando le spalle non solo con il corpo ma anche con il cuore in quanto gli altri non rientrano nella tua mentalità. Quando sto bene io, stanno bene tutti! Ma non corrisponde a verità perché il Vangelo capovolge completamente la logica e dice a chi è primo vai in fondo e all’ultimo passa avanti. Gesù entra nella casa del fariseo per far nascere il desiderio dell’umiltà e uno stile di vita che non cerca di primeggiare, ma di servire e di accogliere chi alla tavola solitamente non è abituato a starci, perché sta in strada. Come quei bambini rom rimasti uccisi nel rogo qualche settimana fa sotto un ponte a Livorno. Due di loro erano anche sordi e di certo nella vita avrebbero conosciuto l’accattonaggio e la vita di strada. E allora viene da chiedersi: chi sono i poveri, storpi, zoppi e ciechi di cui Gesù parla nel vangelo odierno e addita come persone alla quali andare e a cui rivolgere l’invito? La povertà culturale aggrava il solco della povertà fisica. Un paese che si vede morire sotto i propri occhi (quelli dei genitori erano occupati a chiedere l’elemosina in città in occasione della festa del patrono, arrestati poi per abbandono di minori) quattro giovani creature non può che non ripensare a chi sono i primi e chi gli ultimi. Gesù ha parole per tutti: per gli invitati e per colui che invita. Sono parole le sue che subito dopo si tramutano in scelte concrete e da queste, come testimoniano i Vangeli, prendono vita parole di vita. Gesù chiama amico chi si mette all’ultimo posto: coloro che scelgono di servire gli ultimi, sia nella dimensione concreta che in quella culturale, vengono chiamati amici perché vicini allo stile di Gesù, amici perché hanno capito dove e come servire Dio. Quando alla tavola si siedono coloro che hanno da ricambiare Gesù fa capire che dietro vi è una vita chiusa in se stessa e ricurva sulle proprie sicurezze. Poveri, storpi, zoppi e ciechi che Gesù pone dentro le comunità non solo i diversamente abili, ma tutte quelle situazioni in cui la parrocchia tende a creare recinto e steccato verso tutto ciò che destabilizza, disarma, rende muti e sconquassa gli equilibri interiori, proprio come sanno fare loro. I giovani che ripartiranno dalla spianata di Montorso verso le rispettive diocesi, parrocchie, associazioni e movimenti tengano sempre presente questo rischio: si fa Agorà se si include e non esclude. Se si invita a tavola chi non conosce il cibo del Vangelo, chi guarda alla Chiesa con occhio della sola morale e giudizio, donandogli invece il pane della condivisione, della relazione faccia a faccia, cuore a cuore, narrandogli ciò che Dio è capace di fare nel cuore di chi si affida a lui. L’Agorà dei giovani rappresenta una sfida, in primis, proprio per la Chiesa Italiana e le 226 diocesi che la costituiscono. I giovani si devono sentire: amico passa più avanti. Sì, amico: è il nome che un Papa, un vescovo, un sacerdote e genitore dovrà usare verso ogni tipo di giovane se gli vorrà raccontare Dio. Giacomo Ruggeri