Domenica 29 luglio

Genesi 18,20-21.23-32; Colossesi 2,12-14; Luca 11,1-13 La preghiera non conosce un metodo unico, ma una relazione unica. Quella verso il Padre, mediante il Cristo, per opera dello Spirito Santo. Esordiamo con una domanda: perché pregava Gesù? Come viveva e intendeva la preghiera e il pregare? Nessuna intenzione di dare risposte esaustive a interrogativi dal calibro assai forte, ma di offrire delle linee di riflessione che hanno intrecciato la vita dei discepoli con quella di Gesù e la sua con quella del Padre. I primi a prendere l’iniziativa sono i discepoli, non il maestro. Apparentemente è questo il quadro che si può leggere in superficie nel brano dell’evangelista Luca. Ma ponendo maggiore attenzione, non solo linguistica ma anche interiore, si coglie un particolare che Luca ci rivela: “Si trovava in un luogo”; un discepolo chiede a Gesù di insegnare a lui e agli altri di pregare dopo che lo ha visto pregare. Ma di quale luogo si parla, quale topografia vuole presentarci Luca? Il primo messaggio che Gesù ci vuole dare in merito alla preghiera è il seguente: il pregare è come l’aria che i polmoni respirano, non ne possono fare a meno e tanto meno disgiungersi da essa. Così l’uomo: non ha un solo luogo per pregare ma è lui stesso, grazie anche al corpo, a divenire tempio di preghiera. Disgiungere, in fin dei conti, fede e vita, tempio e casa, può portare al disorientamento e al ripiegamento su se stessi. Gesù non si limita a pregare ma fa della sua vita uno stile di preghiera. Per lui il tempio è uguale all’incontro per la strada con la donna vedova che ha perso sua figlia; la sinagoga simile alla casa di Marta e Maria; il gesto dell’offerta per il sacrificio paragonabile al dono della vista ai ciechi incontrati nel triennio del ministero. A livello pastorale è quanto mai essenziale saper cogliere in questa scelta di Gesù l’idea che la preghiera è saper pregare con e nella vita quotidiana. Saper pregare vuol dire far propri tutti quei verbi maestri che hanno caratterizzato la vita di Gesù di Nazareth: perdonare, vivere, donare, accogliere, scegliere, indicare, ecc. Per cui sia in casa che per strada, al lavoro e negli ambienti di vita siamo posti dinnanzi all’invito alla preghiera, a tessere autentiche e feconde relazioni dove il collante è il Signore, la sua Parola. Anche nella solitudine di un monastero o in una cappellina in parrocchia la preghiera è persistentemente relazione. Pregare Dio significa veder fiorire il volto del fratello che chiede, ha fame di prossimità. Ecco perché Gesù porta come esempio l’andare da un amico a mezzanotte per chiedere il pane per un altro amico. La preghiera è l’amicizia profonda che si tesse tra Dio e l’uomo, tra l’amico che giunge a mezzanotte, il Padre, da un amico che è già ha letto con i bambini, l’umanità che si rivolge a Dio con insistenza. Alquanto significativo il paragone dei tre amici citati da Luca, la simbologia dei tre pani che vengono chiesti e l’ora del cuore della notte. La preghiera non è mai chiedere per sé, ma saper chiedere a Dio che si mostri a noi tramite gli altri. L’insistenza non indica l’impazienza di non saper attendere o un invito ad essere testardi finché non la si spunta, ma quel saper rafforzare nel proprio cuore la fiducia in Dio. È un insistenza che dice di maturare nella relazione ciò che si chiede nel silenzio del proprio cuore. Da qui il plurale dei “chiedete, cercate, bussate”. La preghiera personale nel segreto del proprio cuore e nelle mura di una cella monastica non sono che l’antipasto dei quei tre pani che saranno consumati assieme nella preghiera comunitaria e assembleare: l’eucaristia. Nel mangiare da soli ci si sfama, nel condividere insieme ci si nutre. In ambito ecclesiale si educhino i bambini, le giovani generazioni e le famiglie a vivere la preghiera sia nella dimensione personale che in quella comunitaria. Espressioni come “prego bene solo se da solo” oppure “vado in chiesa quando non c’è nessuno” ed ancora “non riesco a pregare con altri” possono essere indice di una preghiera mal concepita e pensata, troppo chiusa in se stessa, rischiando di divenire come una pietra da cui non entra e ne esce nulla. La vita cristiana è quell’essere concepiti alla vita, l’uovo donato al figlio che ha fame, in una costante ottica di comunità che fa rinascere ogni giorno l’uomo e in esso la Chiesa. Giacomo Ruggeri