Isaia 49,1-6; Atti 13,22-26; Luca 1,57-66.80 La fine di ogni uomo non è il suo destino, ma il suo fine. Senza lasciarsi ingannare dal possibile e facile giro di parole il cambio dell’articolo cambia totalmente significato. Ogni persona viene al mondo con un Dna cromosomico caratteristico, personale e indelebile. Il colore degli occhi dei propri genitori saranno dominanti in quelli dei propri figli. Una sorta di eredità genetica che si tramanda. Ma quando viene al mondo un bambino vi è una domanda che tiene in sospeso e nutre le attese di chi gli è accanto. Ed è la medesima che si sono posti Elisabetta e Zaccaria, i genitori di Giovanni il Battista: “Che ne sarà di questo bambino?”. La felice coincidenza della dodicesima domenica del tempo ordinario con la natività di Giovanni il Battista orienta il commento verso tre riflessioni tra loro innervate. La nascita di una vita è l’esplosione della misericordia di Dio. Un padre non riesce a vivere senza crescere assieme ai suoi figli e poterci parlare, giocare, riflettere. Così è l’agire di Dio che dona continuamente l’abbondanza della vita con il dono dei figli. Un’abbondanza che viene temuta e misurata dall’uomo al punto che, per natalità, l’Italia è uno degli ultimi Paesi in Europa. Ma la voglia di vita è più forte del desiderio di morte. La sterilità di Elisabetta è stata ricolmata dal dono di un figlio, di colui che diverrà il precursore di Gesù. Vi sono molte situazioni nelle nostre città e paesi di donne che non possono avere figli per molteplici motivi fisici ma che desiderano ardentemente il dono della maternità. Altre, invece, che pur essendo nella possibilità di generare alla luce un figlio decidono di reprimere tale dono con una iniezione abortiva. A tanto desiderio di maternità corrisponde tanto egoismo e paura. Quante giovani ragazze si recano (o vengono accompagnate) all’ospedale per abortire e dire no alla vita. L’aborto è una cicatrice che rimane per sempre nel Dna mentale e interiore della donna che nulla e nessuno potrà cancellare. La scelta di abortire può essere dettata da mille motivi riconducibili, alla fine, ad un solo: egoismo. Non ci si stanchi mai di parlare a vari livelli di tale argomento nella catechesi per adolescenti e giovani cercando di favorire una cultura di apertura alla vita. Da questo punto di vista l’affido e l’adozione sono, in extremis, delle possibilità che vengono offerte come sostitutive alla soppressione della vita. Chiamare per nome una persona significa evocarla alla vita. La Scrittura è ricca di episodi che confermano quanto detto e il testo dell’evangelista Luca proposto dalla liturgia è emblematico. Il nome dato a un bambino va ben al di là della sola iscrizione anagrafica. Vi possono essere ed esistono motivi più profondi che inducono un genitore a chiamare il proprio figlio con il nome di un divo televisivo o di spettacolo! Un nome ti accompagna per tutta la vita e scoprire in prima persona che nella scelta del nome da parte dei genitori vi è una vocazione da far emergere è quanto mai straordinario. È buona cosa, dunque, essere guidati da saggi e profondi criteri nella scelta del nome per il proprio figlio e figlia lasciandosi, perché no, consigliare anche dalla Bibbia. Come, pertanto, si da un nome alle persone è buona cosa nominare ciò che abita nell’interiorità. Dare un nome a ciò che abita nel cuore dell’uomo equivale a ritrovare la direzione e senso alla personale esistenza. Da questa pagina di Vangelo emerge in filigrana l’arte del discernimento, del saper distinguere per scegliere. “Gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua”: Zaccaria era divenuto muto a motivo della sua incredulità e paura. Quando si ha il coraggio e l’umiltà di fare luce nella propria esistenza a qualsiasi età è allora che prende forma il volto autentico e pacificato della vita. Nessuna vocazione prenderà il largo se non si conosce da quale porto si è partiti. Giacomo Ruggeri